Cannes Classics, il ritorno di Man Ray cento anni dopo
Cannes 76 In una delle sezioni collaterali che impreziosiscono la rassegna cinematografica francese, si trovano i lavori di Man Ray, appena restaurati per la prima volta in 4K, e che Jim Jarmusch ha deciso di musicare
Cannes 76 In una delle sezioni collaterali che impreziosiscono la rassegna cinematografica francese, si trovano i lavori di Man Ray, appena restaurati per la prima volta in 4K, e che Jim Jarmusch ha deciso di musicare
Chissà cosa avrà spinto Jim Jarmusch a musicare i film di Man Ray, appena restaurati per la prima volta in 4K, probabilmente il cineasta americano sente affinità tra il suo immaginario e quello dell’artista dada-surrealista che ha realizzato diversi film negli anni ’20 nel periodo fertile delle avanguardie storiche, quando il cinema sperimentale raggiunge il suo fulgore soprattutto tra Francia e Germania, lavorando con l’astrazione pittorica e con la messa in scena dell’oggetto. L’occasione – colta al volo dalla sezione Classic del festival di Cannes – è il centenario de Le Retour à la raison, breve cortometraggio del 1923 che costituisce un unico programma insieme ai cronologicamente successivi Emak Bakia (1926), L‘Étoile de mer (1928) e Les Mystères du château du dé (1929). La performance sonora di Sqürl (ovvero Jarmusch in coppia con Carter Logan) rappresenta sicuramente un valore aggiunto agli esperimenti di Man Ray.
Come ha scritto Jean-Michel Bouhours: «Man Ray ha fatto film nella gioia, per giocare, per gioire», aggiungendo: «ha realizzato i suoi film così come i suoi oggetti, fondando l’atto creativo sulla spontaneità e sull’improvvisazione». Nei primi due titoli in programma l’oggetto svolge un ruolo determinante. Isolato dalla sua dimensione quotidiana, svuotato del suo valore d’uso e riscoperto in quanto elemento estetico, «d’affezione» (Man Ray) o di «significazione simbolica» (Dalì), l’oggetto dada nel suo essere composto da elementi prelevati da diversi contesti, realizza il connubio prefigurato da Lautréamont: «Bello come l’incontro fortuito, su un tavolo anatomico, di una macchina per cucire e di un ombrello». Il carattere «fantasmatico» dell’oggetto di cui parla Rosalind Krauss in un suo saggio, è particolarmente evidente nel dispositivo stesso della riproduzione cinegrafica.
Nelle sequenze iniziali di Le Rétour à la raison e di Emak Bakia, si susseguono spilli, molle, puntine da disegno, ecc., immagini ottenute con la tecnica del rayogramma, già usata in precedenza dallo stesso Ray in campo fotografico e poi trasferito anche al film su sollecitazione di Tristan Tzara, che – come ricorda lo stesso artista nella sua biografia – si recò da lui per commissionargli un film da proiettare durante la manifestazione Le Coeur-à-barbe, memorabile serata che finirà in una grande rissa, segnando di fatto il passaggio dal dadaismo al surrealismo. In queste sequenze l’oggetto è disposto su una striscia di pellicola vergine emulsionata, il tempo che basta per impressionarvi la sua ombra. La creazione dell’immagine avviene senza apparecchio, per semplice contatto e, dunque, senza produrre alcuna interlinea tra un fotogramma e l’altro, flusso ininterrotto e pulsante sulla pellicola. In Le Rétour ovviamente Man Ray affianca a queste immagini sequenze «dal vero», ma non meno astratte: ad esempio stampando prima in positivo e poi in negativo il torso nudo della sua compagna Kiki de Montparnasse, nota modella della Parigi del tempo; quindi ci mostra sue opere, tra cui il poema ottico realizzato proprio in quel periodo.
Emak Bakia, di lunghezza maggiore, nasce in modo meno frettoloso, anche se il linguaggio resta il medesimo, cioè sostanzialmente astratto nella maggior parte delle sequenze, realizzate con specchi deformanti, filtri, sfocature, effetti di rifrazione, ecc.. La dicitura iniziale di «cinepoema» indica che l’artista vuole essenzialmente costruire una poesia visiva in piena libertà, senza nessuna struttura preordinata. Anche qui le figure umane – che compaiono tra un gioco di riflessi luminosi e un oggetto animato – sono assimilate a un paesaggio di visioni e cose, un po’ come avviene in Ballet mécanique (1923) di Léger, cui del resto Ray aveva dato un apporto decisivo (e non solo tecnico), dove gli oggetti sono umanizzati e gli esseri umani ridotti a meccanismi, in pura rivolta degli oggetti stile dada.
Molto diverso è L‘Étoile de mer, basato su un poema di Robert Desnos e, dunque, più specificamente surrealista, tanto che viene ascritto dagli storici al gruppo ristretto di film considerabili tali, insieme a La Coquille et le Clergyman di Dulac, Un Chien andalou e L’Age d’or di Buñuel e Dalì. «La poesia di Desnos era come la sceneggiatura di un film», ricorda Ray sempre nella sua autobiografia, «quindici o venti versi, ciascuno con un’immagine chiara e distinta di un luogo, di un uomo, di una donna. Non c’era azione drammatica, ma tutti gli elementi per una possibile azione». La messa in scena – caratterizzata da una gelatina messa davanti all’obiettivo in modo da sfumare i contorni e intensificare l’aura onirica – avviene così in modo quasi naturale, con un sottotesto fortemente erotico-organico dato soprattutto dal fatto che la stella marina, echimnoderma che restituisce una sensazione tattile, richiama l’organo sessuale femminile associata alla paura della castrazione da parte del personaggio maschile: il legame con il mito greco-romano di Cibele è denunciato da un chiaro riferimento del poema di Desnos, riportato anche nelle didascalie, con il calembour: Cybele/ si belle!.
Nel quarto film riproposto nella performance musicale di Cannes, Les Mystères du château du dé, l’artista americano ma francese di adozione, ritorna all’esprit dada. Il cortometraggio gli viene infatti commissionato dal visconte di Noailles, che lo invita nella sua villa progettata dall’ architetto modernista Mallet-Stevens. Il film è dunque una sorta di divertissement totalmente anarchico, e a tratti demenziale, girato con il nobile (che tra l’altro finanzierà l’anno seguente il citato L’Age d’or e Le Sang d’un poète di Cocteau) e i suoi ospiti, performer improvvisati. Il dado del titolo si riferisce a un verso di Mallarmé che funziona un po’ come motore dell’intero film: un coup de dé j’amais n’abolira l’hasard. Apologia del «caso» che presiede ai processi di automatismo psichico, Le Mystères… vede al centro il tema della maschera (i personaggi indossano calze da donna sul volto), ma anche riferimenti all’arte (i depositi della villa pieni di quadri della collezione sistemati su pareti scorrevoli), nonché inquadrature che valorizzano lo spazio architettonico, in fondo vero protagonista del film.
In realtà Man Ray non ha realizzato solo questi 4 notissimi film, ma – oltre all’episodio di Dreams that Money Can Buy (1943-47) di Richter – anche altri, 11 per l’esattezza, alcuni dei quali considerabili più «amatoriali» (ma chi può stabilire il confine?). Tra di essi Corrida (1929), Poison (1933-35), dove compare anche Meret Oppenheim, La Garoupe (1937) dove tra gli improvvisati interpreti spiccano Piccaso ed Eluard, ma soprattutto Two Woman (senza data), forse il più scandaloso e provocatorio, poiché presenta un rapporto sessuale tra due donne e dimostra – ancora una volta – la profonda modernità di questo grande artista.
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