Il festival sarà una retrouvaille, assicura Thierry Frémaux, ancor più dell’anno scorso una grande rimpatriata per celebrare il definitivo ritorno in presenza. Negli ultimi frenetici giorni prima dell’apertura, monsieur le directeur si è ritagliato lo spazio di uno zoom con la stampa estera di Hollywood per promuovere il festival che dirige dal 2007, coi giornalisti stanziati nella capitale dell’industria del cinema americano.

Città strategica, dunque, tanto più per un festival che, come Cannes e Venezia, vi fa affidamento per la requisita quota di glamour e «star power» sulla montée des marches. Ma anche capitale di un’industria attualmente in radicale trasformazione, come testimoniano fisicamente gli edifici marchiati Netflix, Amazon ed Apple che sembrano spuntare come funghi – teste di ponte del modello Silicon Valley che in pochi anni ha cambiato i connotati al modello produttivo cinetelevisivo. Una rivoluzione che in questi giorni si manifesta anche negli ubiqui picchetti di sceneggiatori in sciopero davanti ai cancelli degli Studios. Anche la loro vertenza è legata a doppio filo ai modelli produttivi imposti dai colossi dello streaming, sempre più simili alla gig economy e basasti sul diffuso precariato creativo. «Non conosco i dettagli della vertenza,» mette diplomaticamente avanti le mani Frémaux. «In quanto a scioperi, in Francia al momento ne abbiamo abbastanza di nostri.» Ma le trasformazioni in atto nel sistema cinema riguardano chiaramente anche lui ed il suo festival, non tanto per l’edizione di quest’anno, quanto, se lo sciopero ed il blocco delle produzioni dovessero protrarsi, l’eventuale disponibilità di titoli per l’anno prossimo. Soprattutto prosegue la diatriba con Netflix, la cui politica di solo streaming continua a precludergli il concorso, a tutto vantaggio, ammette Frémaux, del festival di Alberto Barbera (tasto assai doloroso sulla Croisette).

Su questo fronte, Frémaux preferisce sottolineare la breccia aperta con Apple e proprio col film fiore all’occhiello del drappello americano, Killers of the Flower Moon, che segna il ritorno di Martin Scorsese al concorso da cui mancava dal 1986 con Fuori Orario. La casa della mela lo distribuirà in sala in un accordo con la Paramount, aggirando così il veto che preclude il concorso a film destinati unicamente allo streaming. A Cannes il regista newyorchese ha fatto storia con Mean Streets (Quinzaine nel 1973) e poi Taxi Driver (Palme d’Or nel ’76) e rimane un punto di rifermento per la «vecchia guardia» che Frémaux rivendica come patrimonio del festival. «Il concorso è un misto di giovani e veterani,» afferma, «Bellocchio e Scorsese sono ormai ottuagenari. Abbiamo Moretti e Takeshi Kitano – un altro grande ritorno – accanto al futuro del cinema. È bello che questi autori, Moretti o Kaurismaki, continuino a produrre il lore cinema, continuando al contempo ad ispirare giovani registi, pur rappresentati qui.» E per sottolineare il nuovo che avanza ci tiene, il direttore, a ricordare le sette registe in concorso che quest’anno costituiranno un record di partecipazione femminile (il progetto era di avere anche una prestigiosa presidente della giuria come fu Cate Blanchett, ma non è stato possibile trovare un nominativo che fosse disponibile. L’onore toccherà al pluripremiato regista svedese Ruben Östlund).

«È giusto riconoscere il problema di rappresentazione femminile nel cinema,» ammette il direttore, «anche se le cose stanno migliorando.» Aggiungendo, quello che sembrerebbe, se non una capitolazione, un compromesso con le wokisme: «Da parte nostra se dobbiamo decidere fra due film di pari merito da ammettere alla selezione, favoriremo quello di una regista.» È un criterio che oggi il festival applica anche sul piano della provenienza. «A parità merito, ad esempio, fra un film francese ed uno del Senegal, propenderemo per quest’ultimo, per favorire prospettive meno consuete. D’altronde, in casi simili, tendiamo anche a favorire giovani voci su quelle più note».

Frémaux rivendica a questo proposito le grandi «scoperte» del passato, Tarantino Soderbergh, o più recentemente Julia Ducournau (quest’anno in giuria). «Siamo fieri di ognuno di loro. Gli esordienti e ancora di più quelli che sono riusciti nell’exploit più difficile – un buon secondo film, come diceva lo stesso Soderbergh. Per questo Pulp Fiction fu un tale miracolo, dopo Le Iene.