Kristen Stewart è, oggi, l’attrice che più sperimenta «metamorfosi» filmiche, re-inventando in ogni film la propria immagine (in «parallelo» con il proprio vissuto fuori dai set altrettanto mutevole), e oltre il cinema, se pensiamo alle sue folgoranti, incandescenti performance condensate nella durata breve del videoclip, corpo erotico e in transito che, seducendo personaggi maschili e femminili, travolge e trasforma coloro che incontra e gli ambienti nei quali agisce (accade in The Rolling Stones: Ride ‘Em on Down e Interpol: If You Really Love Nothing) – mentre aspettiamo con grande curiosità, soprattutto dopo avere visto i cortometraggi e videoclip da lei diretti in questi anni, piccoli gioielli di sguardo intimo e sperimentale, il suo esordio nel lungometraggio come regista di The Chronology of Water.

In tale contesto, nulla di più «naturale» che l’incontro tra l’interprete losangelina e David Cronenberg sul set di Crimes of the Future (in concorso a Cannes e il cui svelamento di contenuti e immagini viene centellinato giorno dopo giorno in un’abile comunicazione mediatica vista l’attesa creatasi intorno al nuovo lavoro del cineasta canadese).

Dalle parole di Stewart, in dichiarazioni rilasciate a Screen Daily, e dalle prime immagini circolanti del film, affiorano le «metamorfosi» alle quali si assisterà. «Crimes of the Future, afferma l’attrice, «è collocato in un mondo dove la gente è cambiata al punto tale da non provare più dolore fisico, dove anche il sesso è cambiato parecchio e una nuova forma d’arte consiste nel far crescere e esporre gli organi del corpo umano». Timlin, l’investigatrice del National Organ Registry, ovvero il personaggio interpretato da Stewart, entrerà in contatto, finendone sempre più invischiata, con le pratiche radicali compiute da un artista performativo e dalle persone che lo attorniano. «Naturale», l’approdo dell’attrice al mondo cronenberghiano dei corpi mutati e mutanti, anche nel senso che per Kristen Stewart si manifesta come il proseguimento di un percorso immerso in una costante, e stratificata, trasformazione fisica che l’ha portata, da un film all’altro, e solo per evocarne alcuni, a «diventare» Jean Seberg (Sieberg – Nel mirino) o Lady Diana (Spencer), oppure in Underwater una ricercatrice scientifica in una base sottomarina il cui corpo sarà sottoposto a dure prove nel tentativo di sopravvivere, o ancora in JT LeRoy la giovane donna che accetta di spacciarsi per qualcuno che non è, e che neppure esiste, vale a dire lo scrittore fittizio J.T. LeRoy. Senza dimenticare che nella sua filmografia c’è la pregevole saga di Twilight, dalla quale ha saputo magnificamente affrancarsi, non rimanendo impigliata nel personaggio di Bella e sempre, film dopo film, non omologarsi all’industria conferendo di volta in volta alla sua filmografia una prospettiva plurale nel segno della ricerca.

Osservando trasversalmente il programma di Cannes, emergono altri nomi d’attrici che, pur in maniera meno profonda di Kristen Stewart, hanno saputo e sanno continuare a mettersi in gioco nella costruzione di filmografie intinte nella contaminazione, nel piacere del ri-iniziare il proprio lavoro in territori inattesi. Il segno, ancora quello, di «metamorfosi» filmiche davanti e dietro la macchina da presa. La presentazione sulla Croisette dei loro nuovi film è qui l’occasione per soffermarsi, pur brevemente, sul lavoro svolto da altre tre attrici, dalla filmografia corposa o ai suoi primi passi eppure già significativa.

Da quando aveva 18 anni sui set del cinema d’oltralpe, prima in piccole parti e poi da protagonista, a suo agio nel muoversi tra i generi, nella composizione sfaccettata di personaggi inscritti in situazioni di commedia, di dramma, di crimine, di esplorazioni esistenziali, e esordiente dietro la macchina da presa nel 2021 con una delle opere prime più folgoranti degli ultimi tempi, Une jeune fille qui va bien, Sandrine Kiberlain si ripresenta nei panni della disegnatrice di fumetti Claire – ne Le parfum vert di Nicolas Pariser (alla Quinzaine des réalisateurs) – la cui vita prenderà una strada inattesa nel momento in cui verrà coinvolta nelle indagini per risalire a chi ha ucciso un attore della Comédie Française. Cinema e teatro s’intrecciano nuovamente nella filmografia di un’attrice tanto amata in Francia quanto ancora da scoprire, in tutte le sfumature che è riuscita a trasmettere, anche lei mai omologandosi a una linea «vincente», in Italia.

Nella notte di Tehran ritroviamo una delle interpreti simbolo del cinema iraniano contemporaneo, Leila Hatami, protagonista di Tasavor, opera prima di Ali Behrad (alla Semaine de la critique). Film per due interpreti, una donna e un uomo, gioco di seduzione vissuto e immaginato dal protagonista maschile, che fa il tassista e non riesce a dichiarare il proprio amore alla donna che ha incontrato. Se con Una separazione di Asghar Farhadi si è posta undici anni fa all’attenzione internazionale, prima e dopo quel film spartiacque della sua filmografia Hatami ha saputo portare sullo schermo una galleria di personaggi appassionati, spesso tormentati, grazie a un immenso carisma recitativo, come ebbe modo di evidenziare, per ricordare uno dei suoi lavori più intensi, nel melodramma notturno e pieno di tensione Portrait of a Lady Far Away, del 2005, opera d’esordio dell’attore (e suo marito dal 1999) Ali Mosaffa dove s’immerge negli spaesamenti di una donna decisa a suicidarsi.

Infine la marocchina Maryam Touzani la cui carriera di attrice e regista sta costruendosi da dieci anni a questa parte. Pochi titoli indicano già un preciso percorso autoriale (come cineasta a partire dai cortometraggi Quand ils dorment e Aya Goes tho the Beach, storie con al centro delle bambine; come interprete offre un notevole ritratto di donna in Razzia del marito Nabil Ayouch) che ci auguriamo possa confermarsi nel suo secondo lungometraggio diretto, Le bleu du caftan (a Un Certain regard) che si annuncia come un triangolo di sentimenti e relazioni pronte a modificarsi ambientato in un’antica medina del Marocco.