California burning
La California brucia. Da più di due settimane un incendio sta bruciando vasti tratti di bosco a Shasta County, 350 km a nord di San Francisco.
La zona all’estremità settentrionale dello stato è scarsamente abitata ma il cosiddetto Carr Fire ha comunque distrutto più di mille abitazioni nei pressi della città di Redding costando la vita a sette persone compresa una donna di 70 anni e due piccoli pronipoti.
200 km più a sud il Mendocino Complex fire, alimentato dal caldo torrido, ha bruciato più di 1200 km quadrati (pari all’intera estensione di Los Angeles) diventando l’incendio più esteso nella storia dello stato – un record strappato all’incendio che l’anno scorso aveva colpito la zona di Napa e Sonoma, distruggendo centinaia di vigneti e uccidendo 17 persone a Santa Rosa.
Ma i fatti e i dati scientifici come è noto non scalfiscono il negazionismo di Trump che nel mezzo dell’emergenza, con 13mila pompieri ancora impegnati in prima linea, ha pensato di accendere una polemica.
Il presidente ha addossato la responsabilità per gli incendi alle autorità californiane ed alle norme per la protezione dell’ambiente. In un tweet Trump afferma che «gli incendi sono alimentati dalle cattive leggi ambientaliste che non consentono sufficiente accesso alle risorse idriche».
«Invece di mandarle all’Oceano Pacifico l’acqua si deve usare per fuochi, agricoltura e tutto il resto», ha aggiunto nel consueto tono. «Immaginate la California con acqua in abbondanza – Bello! Subito veloci permessi federali». Concludendo: «Dobbiamo anche sfoltire i boschi per fermare il fuoco!».
Il governatore dello stato Jerry Brown ha respinto le accuse di Trump e sottolineato come i problemi idrici dell’agricoltura non siamo legati agli incendi e il comando dei vigili del fuoco ha confermato che non esiste scarsità di acqua per combattere le fiamme.
Si delinea insomma, da parte del presidente che dopo l’uragano Maria si era presentato a Puerto Rico polemizzando col sindaco di San Juan e lanciando rotoli di carta igienica sulla folla, la nuova strumentalizzazione di una emergenza. I tweet di Trump sono in particolare un assist all’industria del legno che da anni rivendica maggiore accesso alle foreste e l’abrogazione delle norme di protezione dei pini redwood nella California settentrionale.
In realtà gli incendi sono parte intrinseca del ciclo ecologico della California dove anche in condizioni normali le fiamme spazzano regolarmente boschi e la macchia.
Ogni anno in estate ed autunno la stagione dei fuochi arriva spinta dai venti torridi che soffiano dai deserti interiori del Great Basin verso le coste. A sud sono i santa anas, nel nord li chiamano diablos. Quando arrivano in prossimità delle coste possono ululare nelle gole e nei canyon con raffiche fino a 70 km orari.
Nell’aria calda e secca basta una cicca o una scintilla – naturale o dolosa – a far scoppiare il finimondo. Nelle risultanti “tempeste di fuoco” le fiamme si muovono con la velocità di un automobile e possono saltare autostrade di otto corsie.
Il surriscaldamento atmosferico è causa comprovata dell’accentuarsi di questi fenomeni: la stagione degli incendi dura oggi 78 giorni più a lungo che nel 1970. Il che fa ulteriormente risaltare la malafede del presidente che ha siglato l’uscita unilaterale dai trattati climatici di Parigi e che proprio la scorsa settimana ha dichiarato guerra alla facoltà della California di imporre limiti autonomi alle emissioni di CO2 delle auto.
Il tutto ha dato un ulteriore amaro retrogusto agli incendi del 2018 che tra l’altro interessano alcune delle poche zone – il nord rurale – a maggioranza trumpista.
Come ha documentato il Los Angeles Times fra le centinaia di pompieri stranieri (australiani, neozelandesi, canadesi) impegnati a combattere il fuoco a Shasta County c’è almeno una brigata composta di immigrati messicani. Quella provincia ha sostenuto Trump per il 65 per cento e l’anno scorso si è dichiarata contraria all’accoglienza degli immigrati.
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