A distanza di poco più di cento anni dalla nascita, e di poco meno di trenta dalla morte, Charles Bukowski continua a essere circondato da un mito tenace, che ha trasformato le sue opere più significative, da Taccuino di un vecchio porco a Post Office, da Storie di ordinaria follia alle poesie di L’amore è un cane che viene dall’inferno e di Tutti gli anni buttati via, in vere e proprie tappe inaugurali per chi voglia esplorare la letteratura americana più marginale e «irregolare», in un percorso che include gli esponenti di punta della beat generation e che arriva fino a Raymond Carver. Al tempo stesso, Bukowski rimane escluso da qualunque tentativo di costruire un canone letterario del Novecento, e molta critica tende a considerarlo l’esponente di una bohème degradata ai suoi istinti primari e tradotta in una scrittura “spontanea” e torrenziale, raramente sorretta dal controllo espressivo e dal lavoro di filtro e condensazione nei quali si dovrebbe riconoscere il segno della grande arte.

Verità? Malinteso? Repulsione borghese nei confronti di un uomo che ha coltivato il suo tenace alcolismo fin dall’età di quattordici anni, che ha rifiutato a lungo qualunque rapporto con la comunità letteraria del suo tempo, che si autoritraeva nelle vesti del grande misogino e raccontava il sesso nella sua più spregiudicata animalità? La scoperta di un ampio epistolario con Sheri Martinelli, personaggio di primo piano sulla scena culturale americana degli anni Cinquanta e Sessanta, e la sua pubblicazione italiana – Notti di bevute e schiamazzi (traduzione di Simona Viciani, Guanda, pp. 389, € 19,80) offrono l’occasione non solo per approfondire la vicenda umana di Bukowski, ma anche per tornare a riflettere sul suo contributo alla poesia statunitense del Novecento e, più in generale, sulla sua idea di letteratura.

Nel 1960, Bukowski è ancora un illustre sconosciuto. Dopo una «falsa partenza» negli anni Quaranta tra il 1944 e il 1946, un paio di suoi racconti hanno trovato spazio in altrettante e non rilevanti riviste) e dieci anni trascorsi passando da un mestiere all’altro, da una sbornia all’altra, da una rissa all’altra, Buk si è spostato sulla poesia, scrive con autentica furia e invia i suoi componimenti a una serie di periodici letterari minori. Tra questi c’è anche la Anagogic & Paideumic Review, fondata a San Francisco da Sheri Martinelli, pittrice, già modella per Vogue, legata negli anni Quaranta a Anaïs Nin (che ne ha offerto un ritratto memorabile nei suoi Diari), e negli anni Cinquanta a Ezra Pound (al quale aveva fatto quotidianamente visita nel manicomio criminale di Washington dove era rinchiuso, divenendo per alcuni anni la sua musa).

Sheri risponde con una lettera di rifiuto, nel suo stile rapsodico che al magistero di Pound alterna la ritmica dei poeti Beat. A suo giudizio, il talento di Bukowski si disperde dentro un autobiografismo esasperato e una propensione per il «brutto» e l’inestetico che cozza con la sua personalissima visione dell’arte. «Devo dirti», sintetizza Sheri, «che non sento potenza nei tuoi lavori, capisco l’argomento trattato cioè la vita; ti consiglio di continuare a scrivere; ti consiglio di rispolverare in biblioteca la vecchia banda – i greci/latini con una buona traduzione & scoprirai che la vita non è mai stata tanto diversa… ti risvegliano l’anima… il desiderio di lasciare un messaggio d’aiuto per chi verrà dopo di noi/ & non fare un elenco di come la vita ci tratta o non ci tratta/ il maestro ezra pound  continuava a dirmi “non svuotarmi in testa il tuo bidone di immondizia…” quindi ho imparato la lezione nel modo più spietato…».

A una vestale della cultura che lo invita a «prendere confidenza con la tradizione dell’arte di conoscere altri argomenti oltre a te stesso», Bukowski risponde chiarendo quale sia la sua posizione e la sua idea di letteratura, e soprattutto invitando Martinelli, non senza una certa irritazione, a non confondere la matrice personale e autobiografica delle sue composizioni con un’assenza di consapevolezza: «Cristo, ho letto i tuoi classici, ho sprecato la vita in biblioteca, voltando pagine, cercando sangue. A me sembra che non sia stata svuotata ABBASTANZA immondizia, le pagine non urlano; la solita dignità esibita e i so-tutto-io e pagine secche bruciate dal sole ma impalpabili come farina».

All’idea di una poesia oggettivata e asciugata di ogni riferimento autobiografico Bukowski oppone la ricerca di una depurazione e di una compiutezza estetica che parta sempre da se stesso, che non cancelli l’io ma lo esalti e lo sublimi nella sua carnalità fallibile. Non a caso chiede a Sheri: «A proposito, i tuoi cosiddetti moderni devono proprio scrivere io io io senza maiuscola? Tempo fa faceva colpo ma adesso è solo un lento morire». E anche per il venerato Pound ha parole di fuoco: «Parti di Pound non erano male, naturalmente, ma troppo circo e chiacchiere sciocche, maestro maestro che seminava errori di stumpa e menava pugni, l’effetto del fare, sembra camminare dritto mentre se ne sta sdraiato».

Tra la posizione «classica» di Sheri Martinelli e quella turbolenta di un poeta non più giovane, ma che del furore giovanile fa la sua bandiera; tra l’idea che l’immondizia vada messa sotto il tappeto e quella che di immondizia non ci sia mai abbastanza, sembra non esserci conciliazione possibile. Eppure, a partire da un rifiuto e da una polemica, nasce un epistolario intensissimo, concentrato quasi interamente nel corso di due anni (il 1960 e il 1961), pieno di liti, di confessioni a cuore aperto, di tenerezze reciproche. Martinelli insiste nel tentativo di imporre il modello poundiano di una poesia che raccolga, sussuma e rielabori la tradizione trasformandola in qualcosa di completamente nuovo, e Bukowski, pur riconoscendo, quasi obtorto collo, la grandezza dell’operazione compiuta nei Cantos, ribadisce: «Ciò che andava bene per Pound non va bene per me. Non VOGLIO una ‘mappa del mondo in testa’, non voglio intasature o cose simili; le parole che uso saranno mie perché so che lo saranno, punto e basta».

E quando Sheri esalta, tra i suoi amati Beat, Allen Ginsberg, Bukowski confessa divertito di non essere mai stato in grado di leggere Urlo senza annoiarsi a morte, e aggiunge: «ho scoperto che ARTE È AFFRONTARE L’ORRORE CON DIGNITÀ E INTELLIGENZA», mentre per Ginsberg Arte è «un sottotitolo o una dedica o un suono in un giornale di un college statale pubblicato da uno studentello che non sa una beata fava».

Ne ha per tutti, Bukowski – l’unico poeta che ammira in modo incondizionato è Robinson Jeffers – ed è ruvido a dir poco nei suoi giudizi, ma non c’è mai compiacimento nello smontare un’intera tradizione poetica: e mai manca, nelle lettere più memorabili di questa sorprendente raccolta, la consapevolezza che la vera battaglia andrà combattuta con l’orrore quotidiano e con l’immondizia, nel tentativo, forse, di preservare la capacità, a quarant’anni suonati, di mantenere il proprio sguardo di «bambino» e di poter dire: «Non mi piace la gente che scrive che tutto questo è già successo, non si può scrivere. Sta succedendo adesso».