La guerra interna contro il crimine organizzato andrà avanti senza esitazioni finché il problema della sicurezza non sarà risolto in tutto il paese. Così ha garantito il presidente Noboa, escludendo qualsiasi negoziato di pace in stile colombiano a cui, in un video recente che ha avuto ampia eco sulle reti sociali, si erano richiamati i membri di un gruppo criminale, tra una richiesta di scuse alla popolazione per i «disordini» e un attacco al presidente, descritto come «un bambino ricco con un ego da supereroe».

Nella sua offensiva contro la criminalità, tuttavia, il «bambino ricco» gode di un forte sostegno, all’interno e all’esterno del paese. Sul piano interno, dove persino Rafael Correa ha espresso «tutto il suo appoggio» («il crimine organizzato ha dichiarato guerra allo Stato e lo Stato deve uscirne vincitore»), la popolazione applaude all’azione di Noboa, il quale ha già manifestato l’intenzione di ispirarsi al modello repressivo del presidente Nayib Bukele, costruendo penitenziari sul tipo del megacarcere salvadoregno in cui sono rinchiusi 40mila membri delle pandillas.

Una linea da cui si smarcano in pochi, e in particolare la Conaie, la Confederazione delle nazionalità indigene, la quale ha sollecitato il presidente a operare in linea con il quadro legale vigente, non senza ricondurre la violenza «senza precedenti» dilagata nel paese alla radicalizzazione delle politiche neoliberiste.

Un forte sostegno è venuto anche dall’esterno, assumendo però coloriture assai distinte in base agli interessi di ciascuno. Fedele alla fallimentare guerra alla droga combattuta da tutti i governi Usa a partire dagli anni ’70, Biden invierà in Ecuador Laura Richardson, capo del Comando Sud degli Stati Uniti, insieme ad alti funzionari dell’ufficio anti-narcotici, per aiutare il governo nella lotta al crimine organizzato. Un aiuto che Noboa ha accettato «con molto piacere», evidenziando come dal 35% al 40% della droga che esce dall’Ecuador finisca proprio negli Stati Uniti.

«Esplicito e inequivocabile» anche l’appoggio espresso dal presidente colombiano Gustavo Petro, il quale tuttavia ha individuato la causa dell’ondata di violenza attraversata dal paese vicino proprio in quella «errata politica anti-droga», a base di repressione e militarizzazione, contro cui si è scagliato più volte nelle sedi internazionali. Una politica che avrebbe condotto all’«espansione di potenti bande» a livello «multinazionale», a cui Petro contrappone invece, come soluzione assai più efficace, la necessità di «dotarsi di massicce politiche» a favore dei giovani, a cominciare da quelle educative.

Dal fronte esattamente opposto, il presidente Bukele, con cui del resto Petro aveva già polemizzato in passato, approfitta degli eventi ecuadoriani per ribadire l’efficacia della propria strategia del pugno di ferro, basata su uno stato d’eccezione ormai permanente – è stata recentemente approvata la sua 22esima proroga – e sull’incarcerazione indiscriminata di qualsiasi sospetto. «Da che parte stanno? Da quello delle persone oneste o da quello dei criminali?», ha risposto non a caso di fronte alle critiche della Comissione interamericana sui diritti umani riguardo alle ricorrenti violazioni commesse dal suo governo.

Alla dichiarazione di un «conflitto armato interno» da parte del governo Noboa, con l’autorizzazione ai militari a intervenire come se fossero in guerra, guardano con ammirazione anche le forze bolsonariste, sui cui gruppi social circolano i video dei discorsi patriottici dei militari ecuadoriani schierati per le strade. Con l’obiettivo di sempre: legittimare l’intervento delle forze armate nell’ambito della sicurezza pubblica, anche al di fuori del quadro legale. E con un’accusa implicita: quella rivolta all’esercito brasiliano per non essere stato all’altezza – il riferimento è all’8 gennaio del 2022 – nel compito di difendere il paese.