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È ufficiale, l’ultima bugia di Al Sisi

È ufficiale, l’ultima bugia di Al SisiI documenti di Giulio Regeni pubblicati sulla pagina Facebook del Ministero degli Interni egiziano – Ansa

Caso Regeni Il Ministero degli Interni pubblica le foto dei documenti di Giulio, ritrovati in casa di uno del malviventi uccisi. Una storia impossibile da credere. Intanto si aprono nuove collaborazioni commerciali tra Roma e Il Cairo

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 26 marzo 2016

Un vassoio d’argento, il passaporto aperto sulla prima pagina, il badge dell’Università di Cambridge rivolto alla macchina fotografica, la tessera dell’Università Americana del Cairo, una carta di credito, un cellulare in mano ad un bambino. E il volto di Giulio sui documenti: con tre foto pubblicate in piena notte sul proprio profilo Facebook, il Ministero degli Interni egiziano dà la sua versione dei fatti, smentendo la stessa procura della capitale.

Il coinvolgimento nella morte di Regeni della banda criminale sgominata a suon di pallottole dalla polizia era stato negato dal procuratore del Cairo, Cherif Abd El Monim, e da fonti interne alla sicurezza al quotidiano filo-governativo al-Ahram. Ma qualche ora dopo il governo egiziano ha riproposto l’incredibile teoria della criminalità. Giulio è stato ucciso da una gang specializzata nel rapimento di stranieri e solita travestirsi con uniformi della polizia.

Le prove – suggerisce il Ministero – stanno nei documenti e gli effetti personali del giovane ricercatore, ritrovati in casa della sorella di uno dei malviventi. E le divise da poliziotti spiegherebbero perché testimoni hanno dichiarato di aver visto Giulio, la sera del 25 gennaio, quinto anniversario della rivoluzione di Piazza Tahrir, venire portato via da ufficiali di polizia.

Giovedì le forze di sicurezza si sono avvicinate ad un minibus al Cairo; i quattro uomini a bordo avrebbero aperto il fuoco provocando la reazione dei poliziotti che li hanno uccisi. Sono stati identificati come Tarek Abdel Fattah, 52 anni, suo figlio Saad Abdel, 26, Mostafa Bakr, 60, e Salah Ali, 40. Il corpo senza vita di un quinto uomo si trovava sul retro del minibus, insieme ad un fucile, una pistola e tesserini della polizia.

Poco dopo nella perquisizione dell’appartamento della sorella di Tarek Abdel Fattah sono stati trovati gli effetti personali di Giulio, 560 dollari in sterline egiziane, un portafoglio da donna e 15 grammi di hashish. E la donna, Rasha, ha anche rilasciato una dichiarazione agli inquirenti egiziani: «Giulio Regeni è stato ucciso perché resisteva alla rapina». Un’affermazione che non spiega in alcun modo i segni evidenti di prolungate torture sul corpo del giovane.

A sollevare ulteriori dubbi sulla veridicità della versione propinata dal Ministero degli Interni è stato il quotidiano britannico The Guardian che ha chiesto al portavoce del dicastero, il generale Fathy, perché in una delle foto si vedono le mani di un bambino reggere un cellulare. La risposta è la negazione: nessun bambino era presente.

Se Il Cairo spera così di rifilare all’Italia e al mondo la «verità», dovrà fare di meglio. Le ovvie domande restano senza risposta: perché una banda di criminali avrebbe rapito un cittadino straniero la sera dell’anniversario della rivoluzione, con l’esercito dispiegato in ogni angolo della capitale? Perché avrebbero torturato per giorni, in modo atroce, Giulio? Perché lo avrebbe tenuto in ostaggio per 9 giorni prima di far ritrovare il suo corpo massacrato dalle violenze? E perché non si sarebbero sbarazzati dei suoi effetti personali, chiaro indizio di colpevolezza?

Di certo i quattro presunti malviventi non potranno dire la loro, crivellati di colpi dalla polizia e non arrestati vivi. I colpevoli perfetti, seppure il Ministero nel post su Facebook non gli attribuisca ufficialmente la responsabilità. Basta gettare in pasto all’opinione pubblica i pezzi del puzzle, documenti, uniformi della polizia, la piaga della criminalità: il necessario per allontanare i radicati sospetti che pesano come macigni sui servizi segreti egiziani.

E nonostante il procuratore generale insista nel dire che «non ci sono ancora indiziati», l’inchiesta trasparente promessa dal presidente al-Sisi, amico fedele del nostro premier Renzi, è uno schiaffio in faccia. Il sentore che nulla di nuovo fosse apparso sotto il sole cariota si era fatto strada già mercoledì quando dal rimpasto di governo ordinato dal presidente golpista si era salvato proprio il ministro degli Interni.

Magdi Abdel Ghaffar se l’è cavata in grande stile, nonostante fosse dato per spacciato proprio a causa del caso Regeni: sua la responsabilità legale delle lacune nelle indagini, sua la responsabilità politica per la violenza istituzionalizzata di polizia e servizi segreti, potere parallelo a quello parlamentare e colonna della politica di repressione e censura.

La conferma di Ghaffar invia un messaggio cristallino alla popolazione egiziana: il presidente al-Sisi approva e sostiene l’operato di polizia e servizi. A pagarne il prezzo sono voci di opposizione, attivisti, Ong, media indipendenti, messi sotto silenzio da uno Stato di polizia e dall’impunità che l’Occidente garantisce alla dittatura egiziana. Il Cairo è amico fedele, posizione che si è costruito con la minaccia del terrorismo di matrice islamista, con il ruolo centrale nel conflitto libico, con l’alleanza economica e militare con un altro pilastro occidentale, l’Arabia Saudita.

E mentre ieri gli investigatori mandati da Roma ribadivano che «il caso non è affatto chiuso, non c’è alcun elemento certo che confermi che siano stati loro», l’Italia rafforzava le relazioni economiche con l’Egitto: Pasqualino Monti, commissario dell’Autorità Portuale di Civitavecchia, ha incontrato il ministro agli Affari Economici del Cairo per avviare una collaborazione nel traffico reefer e ortofrutticolo.

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