Bucha, un massacro simbolo di una sconfitta
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Bucha, un massacro simbolo di una sconfitta

Bucha, Ucraina – Ap

Ucraina Ora si può sperare solo in una tregua armata, non nella pace. E il dopo strage, in attesa di foto di altri eccidi, peserà in una guerra che come spesso accade non ha una sola verità

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 6 aprile 2022

Cadono le maschere. Quella indossata da Putin, padrino di un massacro e di crimini di guerra a ripetizione. Mosca sta conducendo una guerra totale, di annientamento. Non c’è un obiettivo politico o di governo del territorio ucraino come poteva sembrare all’inizio (e come dichiarava lo stesso Putin) ma l’intenzione di lasciare terra bruciata e di ottenere al massimo il controllo, se riesce, del collegamento via terra della Crimea al Donbass.

Ma è caduta anche la maschera della Nato dove gli Usa sul campo di battaglia europeo conducono le danze per assestare alla Russia una sconfitta epocale con una guerra per procura usando gli ucraini come la loro fanteria. L’idea di fare dell’Ucraina, giorno dopo giorno, l’Afghanistan di Putin sembra sempre più concreta. I civili, in questa ottica di scontro strategico per la supremazia, sono le vittime «collaterali» di questo gioco al massacro, come del resto abbiamo visto in passato dall’Afghanistan, all’Iraq, dalla Libia alla Siria, dalla Palestina allo Yemen. La differenza questa volta è che le vittime le facciamo entrare in casa, prima, come sottolineava ieri nel suo editoriale sul manifesto Norma Rangeri, le tenevamo fuori anche se erano i profughi delle «nostre» guerre, americane e della Nato.

Il massimo che si può sperare, dopo Bucha, è una tregua armata, non la pace. E il dopo Bucha, in attesa di video, foto e testimonianze di altri massacri, peserà assai, in una guerra che come spesso accade non ha una sola verità. In otto anni di relativa calma – tra la guerra del 2014, l’annessione russa della Crimea e il 2022 – nessuna sensata proposta di pacificazione dell’Ucraina, da Minsk in poi, ha avuto il minimo successo o riscontro, figuriamoci adesso.

Ricordiamoci che alla vigilia della guerra abbiamo visto un corteo di presidenti, primi ministri, cancellieri, capi della diplomazia, arrivare a Mosca: un numero di visite pari ai fallimenti ottenuti perché un compromesso geopolitico e diplomatico era ormai irraggiungibile. Oggi nessuno, almeno sembra, ha intenzione di andare al Cremlino, lo stesso Putin ha sbarrato la porta e le espulsioni dei diplomatici, da una parte e dall’altra, sono un segnale evidente che lo strumento negoziale è in coma.
La sensazione è che ci attendono tempi pericolosi. Erdogan si dà da fare per una mediazione ma Israele – preso dai suoi guai («terrorismo») – è caduto in un silenzio preoccupante perché probabilmente più dei turchi conosce Putin e soprattutto gli americani. L’ex capo del Mossad Eprhaim Halevi all’inizio della guerra scriveva su Haaretz che bisognava salvare la faccia a Putin: conosceva sicuramente più di noi le capacità, anche militari, di resistenza degli ucraini e la determinazione degli americani di punire Putin.

Oggi non si sa più quale faccia salvare e come. I carri armati russi a Bucha, bruciati, sventrati, volati via come fossero di cartone, con i soldati inceneriti dentro, sono il simbolo della sconfitta russa nella battaglia di Kiev e della resistenza ucraina con le molotov, i droni e la cyberwar, già attuata nei primi giorni di guerra. Centinaia di civili massacrati qui e altrove sono diventati il bersaglio della frustrazione dei russi. Verità evidenti, altre negate e offuscate: ma quando cala la polvere della battaglia emerge l’orrore della guerra.

E a che cosa serve l’orrore? A fermare la guerra? No, chiaramente a continuarla. Lo vuole Putin che ha davanti due obiettivi: conquistare un pezzo della costa del Mar Nero, e punire la popolazione ucraina che gli si è schierata contro mentre immaginava che una buona parte lo sostenesse. Questa è stata la prima amara sorpresa per il leader del Cremlino. La seconda è stata che l’Ucraina, con l’appoggio decisivo degli Stati uniti, era già diventata un prolungamento dell’Alleanza atlantica, con un esercito di 200mila uomini, milizie e guardia nazionale comprese, e persino armi sofisticate. L’aviazione russa vola poco perché non ha davvero il controllo del cielo mentre le armi della contraerea ucraina riescono a colpire in volo missili e proiettili russi.

L’aviazione russa ha perso già dozzine di aerei ed elicotteri mentre i carri armati eliminati dagli ucraini non si contano, sbriciolati dai Javelin: le armi anticarro, che possono colpire direttamente o in picchiata, hanno lasciato centinaia di carcasse sul terreno.

La reazione dei russi è stata terrificante. Si chiama guerra totale alla russa: milioni di ucraini non hanno più una casa dove tornare. Ed è quello che volevano in fondo anche gli americani quando per due mesi avvertivano che Putin era pronto a invadere l’Ucraina. Non hanno però mosso un dito per evitare il conflitto. Qualcuno pensa che Putin sia caduto in un trappola.

Non abbiamo ancora elementi per affermarlo e in ogni caso non costituisce una giustificazione. Se fosse stata una trappola però anche l’Europa ci è cascata: qui alla guerra totale non credeva quasi nessuno. Al massimo si pensava a un’operazione militare limitata al Donbass. Nessuno immaginava che il continente sarebbe diventato un campo di battaglia. Il mondo è tragicamente cambiato senza che noi facessimo nulla. Ci meritiamo il peggio? Speriamo di no, per gli altri è già arrivato.

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