Racconta Guglielmo Nencini, già dirigente comunista durante la Resistenza: «Il 31 dicembre 1943, in un’ispezione che feci alla Brigata Lavagnini, trovai il Ciari nel mezzo della neve, con un freddo acutissimo e molta fame, che dava lezione ad un gruppo di partigiani a proposito del materialismo storico di Bucharin». Il Ciari era Bruno Ciari che, nato il 16 aprile 1923, a vent’anni, era salito in montagna con il nome di Davide e ora stava lì, al freddo e alla fame, a fare scuola e non per caso. Il nome Davide, Ciari, infatti l’aveva preso da un romanzo di A. J. Cronin, E le stelle stanno a guardare (trad. Bompiani, 1936), il cui protagonista, Davey Fenwick, figlio di minatori, era riuscito a studiare e a diventare, attraverso la militanza politica, un agitatore di coscienze. Niente di più vicino a quello che, in quei mesi in montagna, Bruno Ciari sperimentava nel tentativo di cambiare il mondo facendo scuola, da partigiano.

Da autodidatta Ciari aveva letto «Croce e Gentile; Hegel e Kant; Freud e Jung; filosofi antichi e moderni; le novità scientifiche». E poi, appunto, letteratura «Cronin, Steinbeck, Gorki, London che hanno contribuito a formare molti antifascisti». Un ricordo di Marcello Masini, compagno partigiano, poi sindaco di Certaldo, che ha ricostruito in modo vivido gli anni della formazione del maestro toscano. Anni di letture e di incontri grazie ai quali prende forma una scelta inevitabile: «Lentamente, quasi per forza di inerzia, direi fatalmente Ciari ed i suoi compagni si ritrovarono non dico antifascisti perché nell’antifascismo erano immersi fin dall’infanzia, ma comunisti. (…) Per quei giovani comunismo e democrazia sembravano identici. Non riuscivano a vedere delle differenze».

UN DATO da tenere sempre presente per valutare a pieno la genealogia dell’impegno politico e del «credo pedagogico» di Bruno Ciari, che si costruisce, come per tanti comunisti italiani, in quegli stessi anni, per somma di letture ed esperienze spurie, eterogenee, come lo è per Ciari, senza dubbio, rispetto alla tradizione marxista italiana, la lettura di John Dewey, sulla quale occorrerrà soffermarsi presto.

Del resto, quando sale in montagna e poi, subito dopo, nel 1945, quando viene eletto segretario del Pci di Certaldo, che cosa sia questa tradizione dei comunisti italiani non è ancora chiaro, soprattutto in ambito pedagogico.

Durante il V congresso del Pci, che si tiene a Roma dal 29 dicembre 1945 al 5 gennaio 1946, è proprio su un aspetto pedagogico della politica culturale che si contrappongono due scuole di pensiero quella di Concetto Marchesi e quella di Antonio Banfi sono i principali esponenti di questo dibattito che avrà non poche conseguenze sulla vita culturale italiana, così come su quella dello stesso Ciari.

Dal primo si leva il richiamo a un umanesimo di stampo classicista, per cui la scuola stessa deve formare l’uomo di tutti tempi attraverso valori universali. Ma, dice Banfi, cosa è l’uomo di tutti i tempi, cosa i valori universali, se non l’astrazione di una classe privilegiata che «crea a sé stessa come giustificazione o come rifugio questo mondo ideale e vi pone a custodi di una classe di clerici pontificanti».

Occorre, invece, insegnare lo spirito scientifico per cogliere le trasformazioni dei tempi che cambiano. In questa temperie culturale e politica Bruno Ciari, continuando a militare nel Partito e poi a farsi eleggere in Consiglio comunale, si dedica soprattutto a dare senso al suo mestiere di maestro. Nella sua cassetta degli attrezzi di studente di pedagogia ci sono le lezioni di Ernesto Codignola seguite per qualche mese a Firenze nel 1942. Ora, finita la guerra, Ciari torna a rivolgersi a Codignola e all’ambiente intorno alla sua «Scuola città Pestalozzi». Un luogo che reca un’indicazione di metodo fin dal nome: serve una città per fare una scuola che sia davvero attiva», dalla parte del bambino.

CERTO, «SCUOLA CITTÀ» è una scuola speciale per un’infanzia in estreme condizioni di disagio, mentre Ciari lavora in una scuola normale con bambini né ricchi né poverissimi. Cosa fare con loro? Come renderli soggetti al centro del nuovo progetto democratico? In molti guardano a John Dewey, e al suo attivismo, per rispondere a questa domanda. Ma l’attivismo di Dewey non può essere ridotto ad espediente come si tende a fare in questi anni, mettono in guardia, da fronti opposti, Francesco De Bartolomeis e Antonio Banfi.

Di Dewey va accolto l’antidogmatismo, l’impegno per una ricerca infinita da portare avanti a scuola. Perché il sapere che nasce così diventa allora davvero sapere di tutti e per tutti. Se letto in questa prospettiva John Dewey sembra potersi coniugare perfettamente con Antonio Gramsci, il Gramsci della ricerca, del metodo, i cui scritti iniziano a circolare proprio adesso.

Non stupisce, dunque, che l’opera di Celestin Freinet, comunista ma anche originale interprete della scuola attiva, abbia l’effetto di una rivelazione per chi, come Ciari, vuole coniugare Dewey e Gramsci e cerca nella prassi soluzioni pratiche per entrare in classe in modo democratico e nell’ideologia un orizzonte etico e politico con cui costruire la città futura. Intorno alla scoperta di Freinet avviene l’incontro con Giuseppe Tamagnini e l’adesione nel 1953 alla Cooperativa della Tipografia a scuola che poi diventerà, anche grazie a Ciari, il Movimento di cooperazione educativa (1957).

Da questo momento, per circa dieci anni, Ciari non smette di costruire un vero e proprio corpus di riflessioni, progetti, pratiche, da condividere con i compagni e le compagne dell’Mce ai quali dedicherà il suo libro Le nuove tecniche didattiche che esce nel 1961. Sono gli anni nei quali Ciari prende posizione contro il fuoco amico di chi rimprovera al Movimento un’ingenua fiducia verso la centralità della scuola e, in essa, della didattica. Critiche che porteranno a una vera e propria frattura interna tra il 1966 e il 1968.

Eppure non c’è niente di ingenuo, e invece c’è molto di politico, scrive Ciari, nel ragionare su come avvicinare i bambini alla lettura e alla scrittura. Il rilievo dato alla didattica nella prima classe è il rilievo dato alle questioni di fondo del leggere e dello scrivere, quindi della prima relazione col sapere, un fatto che non ha niente a che vedere con la meccanica del pensierino, con la lettura dell’antologia, anche laddove l’antologia riporti testi buoni e progressisti. Questo perché a Ciari interessa la costruzione dello spirito critico e non di tanti piccoli «marxisti», come scrive in più di un’occasione.

Fare scuola attiva non significa fare lezioni ex cathedra, né imporre principi, «sia pure razionali e dimostrabili», ma fare in modo che questi stessi principi emergano dalla pratica. La democrazia non si insegna con un’ora di lezione sui concetti che la sorreggono ma con la condivisione delle regole. Altrimenti si torna a precipitare nel dogmatismo, mentre il metodo critico è ben altra cosa: insegna a trovare come rispondere alle domande che inevitabilmente variano, di generazione in generazione.

NEL 1966 Bruno Ciari viene chiamato a dirigere i servizi scolastici del Comune di Bologna dove approfondisce la sperimentazione del tempo pieno e la partecipazione dei genitori alla vita sociale della scuola e un ciclo scolastico integrato di otto anni. Lavora per l’integrazione degli alunni disabili nelle classi normali e, come ha sempre fatto, si preoccupa di raccontare quello che fa, in saggi e articoli, convinto che solo la dimensione cooperativa, condivisibile, replicabile di ogni azione la renda intrinsecamente democratica. Sa bene che non è facile, l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione sembrano due locuzioni nate apposta per descriverlo, Bruno Ciari.

Ottimista nel suo impegnarsi nell’amministrazione pubblica, in un’azione riformista, in anni nei quali tanti compagni iniziano a dire che la scuola non si riforma ma si abbatte. Pessimista quando scrive e riflette su La grande disadattata, l’istituzione scolastica, che esce su Riforma della scuola nel 1970 dove se la prende con una sinistra pedagogica incapace di far coincidere principi e pratiche nemmeno su argomenti come la disabilità a scuola.
Eppure, fino alla fine, che arriva troppo presto, il 27 agosto 1970, Bruno Ciari rimane uno, intero, il partigiano Davide che guarda al futuro, alla scuola del futuro, alla società del futuro: «Quando si parla del duemila sembra di stare nel regno della fantascienza. No. Il duemila batte alle porte, è il nostro futuro immediato, è la giovinezza dei nostri figli».

Ormai la nostra età adulta che tanto deve a Bruno Ciari.

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SCHEDA. A Certaldo, per discutere della sua figura

Il 15 aprile 2023 a Certaldo si terrà una giornata nazionale di studio sulla figura di Bruno Ciari, la scuola e la letteratura. Interverranno Simone Giusti dell’Università di Siena con una relazione su «Perché Ciari, Boccaccio e Certaldo?»; Marcella Bufalini Ciari e Vanessa Roghi, che parleranno rispettivamente della sua eredità a 100 anni dalla nascita e di democrazia a scuola. A Napoli, da oggi al 16, si terrà la LXXII assemblea nazionale dell’Mce: Valore pedagogico e coscienza politica, dedicata alla figura di Bruno Ciari (di cui l’Mce sta ripubblicando alcuni articoli sotto forma di fascicoli). Il 9 maggio alle 16 a Firenze invece una giornata di studio dal titolo «Contrastare il disadattamento per una scuola inclusiva», Comitato scientifico Raffaella Bigioli, Salvatore Maugeri, Lidia Pantaleo, Università degli studi di Firenze. Via Laura 48 e on-line su piattaforma Meet di Mce. Alla figura di Ciari è dedicato un importante capitolo del saggio di Carmela Covato, «L’itinerario pedagogico del marxismo italiano» (ed Conoscenza 2023) mentre i suoi scritti sono stati negli anni ripubblicati a cura di Alberto Alberti e Goffredo Fofi.

Errata Corrige

Per uno spiacevole refuso l’articolo in edicola conteneva un’imprecisione: la giornata di studio a Certaldo si terrà sabato 15 aprile, non il 16.