Bristol non è più schiava, giù la statua del mercante Colston
Black lives matter I manifestanti abbattono i simboli dell’impero razzista che riforniva gli Stati uniti: Edward Colston portò in America più schiavi di chiunque altro, circa 84mila persone, di cui 19mila persero la vita per le atroci condizioni in cui venivano trasportate. Scontri a Londra con la polizia
Black lives matter I manifestanti abbattono i simboli dell’impero razzista che riforniva gli Stati uniti: Edward Colston portò in America più schiavi di chiunque altro, circa 84mila persone, di cui 19mila persero la vita per le atroci condizioni in cui venivano trasportate. Scontri a Londra con la polizia
Fioccano le polemiche sull’operato della polizia, all’indomani dell’abbattimento a Bristol della statua del mercante di schiavi Edward Colston da parte di manifestanti antirazzisti e gli scontri a Londra, nella zona di Downing Street, risultati in un’agente a cavallo disarcionata, ferita seriamente e scritte vandaliche sul monumento di Churchill.
A Bristol gli agenti hanno ragionevolmente lasciato fare i manifestanti, evitando qualcosa di molto più grave. Boris Johnson ha condannato gli episodi, parlando di manifestazione «sovvertita da delinquenza» e più ancora Priti Patel, la destrorsa ministra dell’Interno, che non ha saputo spendere una parola su quanto odiosa fosse l’effigie del «filantropo» del tardo Seicento, concentrandosi sull’illegalità dell’azione.
Quelle di Londra e Bristol sono le uniche dimostrazioni in cui ci sia stato disordine: le altre, a Sheffield, Manchester e Belfast, si sono svolte pacificamente. Il neoleader Labour Keir Starmer e il sindaco di Londra Sadiq Khan hanno criticato le violenze, anche se il primo è riuscito a dire che la statua avrebbe dovuto essere rimossa pacificamente e messa in un museo da tempo.
Propagatesi in tutto il mondo occidentale, le onde telluriche della protesta americana del movimento Black Lives Matter per l’assassinio di George Floyd hanno puntualmente attraversato lo stesso oceano attraverso il quale le compagnie coloniali inglesi commerciavano merce umana.
Le immagini giunte da Bristol nel fine settimana hanno riportato in parte alla mente quelle della statua di Saddam Hussein a Baghdad: il monumento a Colston sradicato con tiranti, fatto rotolare e poi fiondato nelle acque del porto, da cui arrivavano ed erano spediti in condizioni bestiali gli antenati di molti dei manifestanti.
Non prima di farsi fotografare mettendogli un ginocchio sulla gola, come a Floyd il poliziotto che l’ha ammazzato. Anche per questo il sindaco di origine giamaicana di Bristol, Marvin Rees, ha parlato della statua come di un affronto e del fatto che non ne sente la mancanza.
Sì, perché la statua di Colston (mercante, non trafficante come si è letto, come se fosse perfettamente legale commerciare vite umane) eretta oltre un secolo fa era detestata e oggetto di controversie, memento di una Bristol la cui storia e ricchezza hanno molto a che vedere proprio con lo schiavismo.
La città è piena di rimandi a questo vergognoso passato, con strade che si chiamano ancora White lady e Black boy. Colston aveva donato alla città, ma con i proventi insanguinati delle sue compravendite di uomini, donne e bambini. Era membro della Royal African Company, istituita per depredare giacimenti auriferi lungo il fiume Gambia e che trasportò in America più schiavi di qualsiasi altra “azienda” concorrente: si calcola circa 84mila persone, di cui almeno 19mila persero la vita nelle atroci condizioni in cui venivano trasportati.
Le polemiche sulla statua fervevano da anni e non si era riusciti a toglierla di mezzo, come anche a cambiare il testo della targa, che dipingeva l’effigiato come un caritatevole filantropo, ignorando che le mani gli grondassero di sangue: da centoventi anni a questa parte chiunque di origine africana gli passasse davanti se ne sentiva insultato.
Altri illustri eroi dell’impero inglese presentano questo lieve inconveniente, dall’altrettanto schiavista Nelson al razzista Churchill: attraverso Gandhi, il grande statista imperialista detestava gli indiani «bestie con una religione da bestie», colpevoli, sai com’è, di voler l’indipendenza.
Il prossimo a dover essere staccato dalla sua ampollosa edicola è il pestifero Cecil Rhodes, un tempo perfino eponimo del Sudafrica, altro personaggio su cui ci sono stati, e ci saranno, begli scontri, si spera solo verbali.
Con la protesta londinese hanno espresso solidarietà anche illustri personalità nere dello sport e dello spettacolo, come il pilota di Formula 1 Lewis Hamilton, il pugile Anthony Joshua e uno dei protagonisti della nuova franchise di Guerre Stellari, John Boyega.
Hamilton ha rivelato di esser stato vittima di bullismo razzista da ragazzino; l’ultra iridato Joshua è andato alla manifestazione di Londra e ha parlato: «Il virus di cui c’è pandemia è il razzismo e il vaccino da iniettare è quello delle manifestazioni pacifiche e della fine della cultura delle gang».
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