L’ultimo episodio della telenovela Brexit ha mandato in onda, ieri sera, una riunione degli ambasciatori dei 27 a Bruxelles, per uno scambio di idee sull’ultima richiesta venuta da Londra: una nuova estensione della data della Brexit per tre mesi, fino al 31 gennaio 2020. Sarebbe la terza, dopo la prima scadenza il 29 marzo scorso, rimandata una prima volta al 12 aprile e poi una seconda al 31 ottobre. Il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, propone ai 27 di accettare un nuovo rinvio, perché sembra che ormai la data del 31 ottobre non possa venire rispettata, salvo sorprese dell’ultimo momento (sempre possibili). «In seguito alla decisione del primo ministro Boris Johnson – scrive Tusk – di bloccare il processo di ratifica dell’accordo di uscita e per evitare un no deal, raccomando ai 27 di accettare la richiesta britannica per un’estensione», che potrebbe essere una flexestension, cioè sulla carta fino al 31 gennaio 2020, ma con una possibile uscita anticipata, in caso di soluzione a Westminster. La risposta Ue arriverà nel fine settimana, probabilmente venerdì. Dovrebbe essere una risposta “scritta”, quindi senza bisogno di convocare un Consiglio europeo straordinario (che potrebbe però essere indispensabile di fronte a nuovi rimbalzi da Londra).

La Germania ha fatto sapere di essere d’accordo sulla nuova estensione. La Francia è più reticente. Parigi accetta «un rinvio tecnico di qualche giorno». La ministra degli Affari europei, Amélie de Montchalin, ha precisato che «la Francia non vuole un’estensione all’infinito del processo di Brexit», aggiungendo che «a fine settimana vedremo se un’estensione tecnica è possibile per finire la procedura parlamentare, ma al di là di questa prospettiva un’estensione destinata a guadagnare tempo o a ridiscutere l’accordo è esclusa».

L’estensione di tre mesi crea problemi alla Ue, perché a dicembre (con un mese di ritardo a causa della crisi sulle nomine di tre commissari) dovrebbe entrare in azione la nuova Commissione e se la Gran Bretagna non è ancora uscita, dovrà nominare anch’essa il “suo” commissario, bloccando i lavori. La Gran Bretagna non può restare a lungo nel limbo, perché la Ue deve mettere a punto il nuovo bilancio pluriannuale (2021-2027) entro metà 2020 e già c’è stato un appuntamento andato a vuoto al Consiglio europeo della scorsa settimana. Come fare se non si sa se la Gran Bretagna, contribuente netto, resta dentro o è fuori? I tempi sono stretti, dopo il voto definitivo (?) di Westminster ci sarà il voto del Parlamento europeo sul testo dell’ultimo accordo concluso tra la Ue e il governo britannico.

L’Europa vuole evitare a tutti i costi un no deal. Ma c’è anche preoccupazione sul testo dell’accordo. C’è difatti una differenza con il testo che aveva concluso Theresa May: l’accordo di Boris Johnson prevede, tra le righe, un’apertura unilaterale delle frontiere britanniche, tra l’abolizione della garanzia del backstop (restare nell’Unione doganale in caso di mancanza di accordo futuro sulla frontiera irlandese) e dell’impegno scritto nell’accordo di divorzio, che doveva condizionare il negoziato sulle relazioni future, sul mantenimento in Gran Bretagna di uno zoccolo comune con la Ue di norme sulla protezione sociale, ambientale, fiscale, sugli aiuti di stato. Da impegno scritto è stato declassato a vaga promessa contenuta soltanto nella Dichiarazione politica, che non obbliga Londra a rispettarla. A Londra se ne sono accorti i Laburisti, Jeremy Corbyn ha sottolineato che «non c’è protezione legale in questo accordo per restare allineati con la Ue per i diritti dei consumatori, per la protezione dell’ambiente dei lavoratori. Si profila così, come vogliono i brexiteers più estremi, una Gran Bretagna paradiso fiscale e zona di deregulation per il lavoro e l’ambiente alle porte della Ue, una Singapore on Thames.