Brexit agli sgoccioli. L’ultima minaccia di Johnson
Verso il divorzio Per il premier britannico «no deal» altamente probabile. Entro stasera il verdetto. Tra i punti dolenti la pesca: Londra pronta a schierare navi militari contro i pescherecci Ue in caso di non accordo
Verso il divorzio Per il premier britannico «no deal» altamente probabile. Entro stasera il verdetto. Tra i punti dolenti la pesca: Londra pronta a schierare navi militari contro i pescherecci Ue in caso di non accordo
Sulla carta, ancora poche ore, fino a stasera, per negoziare e stabilire se la Gran Bretagna il 31 dicembre alla fine del periodo di transizione durato 11 mesi uscirà definitivamente dalla Ue con un accordo di libero scambio con il blocco, oppure sarà no deal. Ma la storia della Brexit ha già insegnato che le date e gli impegni sono flessibili: la Ue è pronta, in caso di accordo su un trattato di associazione, che deve avere l’unanimità dei 27 e un voto del Parlamento europeo, gli eurodeputati sono pronti a riunirsi anche nella settimana tra Natale e Capodanno.
LA TENSIONE CRESCE. Ci sono dei problemi per il breve termine: la Ue ha già preparato una serie di misure contingenti, per evitare l’embolia nei trasporti aerei e su camion. Poi ci saranno i problemi di lungo termine, anche se per un periodo che potrà durare 2 mesi potranno esserci arrangiamenti settoriali transitori, in attesa di un futuro accordo. Per la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, «la probabilità di un no deal è ormai più alta di quella di un deal». Boris Johnson ammette: «C’è una forte possibilità» di una Brexit senza accordo.
Il premier britannico ha persino tentato di bypassare i negoziatori, Michel Barnier e David Frost, cercando di prendere contatto direttamente con la cancelliera Angela Merkel e il presidente francese, Emmanuel Macron: la Commissione ha dovuto richiamarlo all’ordine, la Ue negozia per tutti (anche nel passato, Londra ha cercato di dividere il fronte Ue, che però si è mantenuto unito). Angela Merkel ha chiarito di nuovo che la Ue chiede la «non regressione» nelle condizioni di concorrenza, per evitare nel futuro vantaggi competitivi (per esempio, attraverso aiuti di stato). «Non reclamiamo che la Gran Bretagna segua la nostra legge, sempre» ha risposto Ursula von der Leyen all’esigenza di take back control di Londra, «resterà libera, sovrana se preferisce, di decidere. Noi adatteremo soltanto le condizioni di accesso al mercato interno e questo si applicherà in modo simmetrico».
I PUNTI IRRISOLTI restano gli stessi da mesi: 1) come ci si assicura di poter introdurre un sistema «no quote, no tariffe, no dumping», cioè le condizioni di concorrenza, che implica che le regole non divergano, è il cosiddetto level playing field; 2) la governance, come si decide, come ci si assicura su eventuali problemi nell’applicazione degli accordi (si è già vista la confusione creata dall’Internal Market Bill, con clausole che contraddicevano l’accordo di divorzio, poi rientrate), quale sarà la giurisdizione che giudica, la Ue propone la Corte di Giustizia europea; 3) la pesca, settore che pesa nei fatti meno dell’1% del pil, ma ha un forte valore simbolico, riguarda la possibilità per gli europei di pescare nelle acque inglesi, le quote di pesca, l’export verso la Ue. Sulle tv di tutta Europa negli anni passati sono state ricorrenti le immagini di battaglie, anche violente, tra pescatori. Su questo fronte, la Gran Bretagna ha annunciato che saranno operative delle navi militari per pattugliare le acque territoriali e difenderle dai pescatori stranieri, una decisione che la Scozia ha già respinto e che un ex ministro tory ha definito «indegna», «irresponsabile».
SUL TERRENO, LA BREXIT si fa già sentire. In Francia, sull’autostrada A16 verso Calais, da giorni ci sono grosse code e ore di attesa per passare la Manica. I ferry sono diminuiti, perché mancano i turisti, Eurotunnel ha ridotto, anche se di poco, le navettes sotto la Manica, mentre i camion sono aumentati a novembre da 130mila dello stesso mese del 2019 a 145mila. Il numero di camion giornalieri cresce, da 10-12mila a 16-18mila, perché gli inglesi fanno scorte temendo gli aumenti delle tariffe doganali dal 1° gennaio. Medicinali, componentistica auto, prodotti alimentari, c’è rischio che manchino (una fabbrica Honda ha sospeso la produzione perché mancano i pezzi).
La Gran Bretagna dipende dall’import di prodotti alimentari dalla Ue per circa il 50% di quello che consuma (in valore, 33 miliardi di euro). Le tariffe di un «accordo all’australiana», di cui parla Johnson, cioè di un non accordo e dell’applicazione delle regole della Wto (Organizzazione mondiale del commercio) salgono fino al 30-40% per gli alimentari (il primo ministro australiano gli ha suggerito ieri: «Non tele consiglio»). Non è solo il problema dello champagne, che costerà più caro, ma di verdura fresca, bacon, patate, persino di pesce (paradossalmente, le acque inglesi sono più pescose ma i britannici importano prodotti ittici). Le code di camion saranno dannose per i prodotti deperibili. È stato calcolato che la Brexit costerà alla Gran Bretagna 44 miliardi di euro e 2 punti di pil, che andranno ad aggiungersi al meno 11,2% dovuto al Covid.
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