Europa

Brexit a ogni costo, Johnson manda il parlamento in pausa

Brexit a ogni costo, Johnson manda il parlamento in pausaLavori a Westminster; in basso Boris Johnson, John Bercow e Jeremy Corbyn – Afo

Gran Bretagna La regina autorizza lo stop: i battenti di Westminster chiuderanno entro il 12 settembre fino al 14 ottobre. Un pericoloso espediente per bruciare i tentativi di bloccare l’uscita dalla Ue senza accordo. «Oltraggio alla democrazia», la mossa del premier scatena la protesta

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 29 agosto 2019

Neanche disfatta la valigia al ritorno dal vertice di Biarritz, Boris Johnson ha chiesto e ottenuto dalla monarca la cosiddetta prorogation del parlamento. Che proroga non è: si tratta di una sospensione fino al 14 ottobre prossimo, ufficialmente per dare una pausa ai lavori camerali che si svolgono ininterrottamente dal 2017, in realtà per bruciare i tentativi del parlamento stesso di bloccare l’uscita dalla Ue senza accordo. Halloween si avvicina infatti al galoppo: quel 31 ottobre che, com’è noto, coincide con la temuta/agognata British Exit.

Si tratta della sospensione della legislatura più lunga dal 1945. Non incostituzionale, ma senz’altro abbondantemente irrituale: è successa in passato ma mai così a lungo, giammai in una situazione politicamente così esplosiva.

I BATTENTI di Westminster chiuderanno dunque entro il 12 settembre prossimo per riaprirsi con il Queen’s Speech, il discorso con cui la sovrana presenta di solito il programma del “suo” nuovo governo. Un governo pieno di fondamentalisti anglomani (Patel, Raab, Gove), che durerà presumibilmente la vita di una falena, il tempo di andare a delle nuove elezioni che l’aristocratico De Pfeffel Johnson conta di vincere ergendosi a paladino della volontà del popolo (oltre che sulla scia del proprio entusiasmo per la piega che ha finalmente preso la sua carriera dopo un’attesa dalla lunghezza francamente inaccettabile).

Nel frattempo, le grida al colpo di stato riempiono l’aere. Lunga la schiera di commenti indignati. «L’attentato alla democrazia» fa inorridire i rimanenti d’ogni colore, in particolare quelli del partito conservatore: non solo l’ex cancelliere dello scacchiere Philip Hammond, rimossosi all’avvento dell’era Johnson, ma dei veterani eurofili come John Major e Michael Heseltine, (rispettivamente ex premier ed ex vice-premier) e lo stesso Speaker della camera dei Comuni John Bercow, che si vede improvvisamente vedovato di una celebrità globale acquisita solo di recente. «Combatterò fino all’ultimo respiro» ha detto Bercow, «quest’offesa al processo democratico». Per tacere dei Libdem, che nella lotta a Brexit hanno trovato un magico antidoto alla propria insignificanza politica: la leader Swinson si è unita al coro di voci che giurano una feroce battaglia legale per impugnare la decisione. Fino al Labour di Corbyn, che finora ha tenuto il piede nella doppia staffa del «ni» all’Ue.

«Sospendere il Parlamento è inaccettabile» ha detto Corbyn. «Quello che sta facendo il primo ministro è uno scasso nella vetrina della nostra democrazia per imporre un no deal». Il leader laburista ha annunciato che martedì prossimo, al riaprirsi dei lavori, cercherà di legiferare in modo da sventare l’operazione di Johnson, e che, «a un certo punto» nel prossimo futuro, presenterà la fatidica mozione interpartitica di sfiducia.

Insomma, il crepaccio costituzionale fra governo e parlamento sulla questione dell’appartenenza o meno all’Ue continua ad approfondirsi, con nefaste ramificazioni a cascata sulla tenuta dello Regno Unito che indeboliscono il sempre meno solido legame con Scozia e Irlanda del Nord. «È oltraggioso», ha reagito la leader scozzese Nicola Sturgeon, «questa non è democrazia, è dittatura». Sui media sociali fluttuano addirittura voci di «sciopero generale», un concetto da queste parti finora poco più che esotico e affascinante.

VA TUTTAVIA tenuto presente che l’escamotage era sul radar degli uscitisti da mesi. Già l’ultraeuroscettico Dominic Raab, ex rivale di Johnson alle primarie tory, poi cooptato con la cadrega di segretario di stato, aveva annunciato che, se eletto leader, avrebbe tirato la prorogation fuori dal cilindro dell’oralità costituzionale che contraddistingue il sistema britannico. E lo stesso Johnson lo aveva ripetuto durante la campagna per la propria candidatura. Che lo faccia adesso, subito dopo aver incontrato un presidente americano con cui condivide orientamento e colore dei capelli era, insomma, abbastanza prevedibile. Donald Trump, dal canto suo, prosegue nella sua cinguettante ingerenza negli affari di nazioni alleate che così in tanti si ostinano a credere sovrane: dopo aver sostenuto Giuseppi Conte, è tornato ad esaltare Johnson come «esattamente quello che il Regno Unito andava cercando».

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