Brescia, la trappola dell’inceneritore
Rifiuti Storia del più grande impianto d’Italia, che ogni anno e per 30 anni è costretto ad incenerire 750 mila tonnellate di rifiuti (più della metà arrivano da fuori)
Rifiuti Storia del più grande impianto d’Italia, che ogni anno e per 30 anni è costretto ad incenerire 750 mila tonnellate di rifiuti (più della metà arrivano da fuori)
L’inceneritore di rifiuti è una macchina complessa e costosa: non a caso è sempre stata accompagnata da finanziamenti pubblici, un tempo i cip 6, poi i certificati verdi, ora il Pnrr. L’amministratore delegato di A2A, in un’intervista del settembre scorso, l’ha detto a chiare lettere: per nuovi inceneritori al centro-sud «serve un fondo di garanzia pubblico… per sostenere i costi di investimento per i nuovi impianti e di un servizio che non si può interrompere».
QUINDI SOLDI PUBBLICI da un lato e grande dimensione dell’impianto dall’altro per le necessarie economie di scala: A2A lo sa bene, grazie all’esperienza maturata con il più grande inceneritore d’Italia, entrato in funzione alla fine del secolo scorso a Brescia, pagato interamente con i Cip 6 in quell’epoca di euforia inceneritorista.
ALLORA I RIFIUTI PROVINCIALI, in assenza di raccolta differenziata, erano circa 450 mila tonnellate, cui si aggiunsero con una evidente forzatura altre 300 mila tonnellate di possibili «biomasse» che in realtà erano rifiuti speciali camuffati: il risultato fu una megamacchina da 750 mila tonnellate annue di rifiuti da incenerire. Scattò così la trappola tecnologica in cui i bresciani si trovano ancora oggi imbrigliati: infatti, se un inceneritore nasce necessariamente sovradimensionato, non per questo poi se ne può ridurre l’utilizzo in funzione del fabbisogno territoriale di smaltimento dei rifiuti a valle della raccolta differenziata, come logica vorrebbe.
L’IMPIANTO DEVE FUNZIONARE a pieno regime almeno per i circa 30 anni di vita tecnologica dello stesso, sia per abbattere i costi di gestione, sia perché i forni devono sviluppare il massimo delle temperature evitando fermate e riavvii critici per le emissioni, sia perché va soddisfatta la richiesta di quel poco di energia elettrica che viene prodotta (nel caso di Brescia anche di acqua calda per le abitazioni).
OGGI, DATI DEL 2020, I BRESCIANI sono diventati abbastanza virtuosi nella raccolta differenziata, ma si potrebbe fare di più: a Brescia, che nel 2023 dovrebbe essere con Bergamo capitale della cultura, nel centro storico spiccano ancora accanto ai monumenti i grandi e osceni cassoni di A2A per la raccolta dell’indifferenziato, dell’organico e di vetro e lattine. Comunque, pur con grande lentezza, vista la fame di rifiuti dell’inceneritore, sono stati compiuti passi avanti sicché i rifiuti urbani da smaltire per l’intera provincia si sono ridotti a meno di 150 mila tonnellate.
EBBENE, A2A, COME PREMIO, CONTINUA a bruciare 750 mila tonnellate di rifiuti, di cui 500 mila importati da ogni parte d’Italia, in massima parte rifiuti urbani camuffati da speciali (combustibile derivato da rifiuti, rifiuti residui da Rd e da altri trattamenti). Insomma una vera beffa: non solo non si è ridotto l’impatto ambientale (emissioni in atmosfera, scorie pesanti e polveri leggere pericolose), ma a questo si sono aggiunte le emissioni delle migliaia di camion che trasportano da ogni dove i rifiuti all’impianto, che si trova in città, dovendo servire il teleriscaldamento della stessa.
INSOMMA, L’INCENERITORE è strutturalmente nemico della raccolta differenziata e se, paradossalmente questa in futuro dovesse decollare seriamente, produce l’effetto boomerang di costringere ad una sconsiderata importazione di rifiuti per decenni essendo vincolati alla necessità di far funzionare la megamacchina a pieno regime.
QUESTO E’ UN ASPETTO DIRIMENTE di cui chi ha a cuore la tutela del proprio territorio deve tenere conto, in aggiunta, ovviamente, al fatto che una vera transizione ecologica è incompatibile con una simile impiantistica. Infatti, anche se l’Ad di A2A si lamenta che «sbaglia l’Europa a tener fuori dal ciclo dell’economia circolare i termovalorizzatori», le istituzioni italiane, a tutti i livelli, dal governo ai comuni, non possono non accogliere gli orientamenti precisi e netti dell’Unione europea rispetto alla paleotecnologia dell’incenerimento.
L’UNIONE EUROPEA CON LE ULTIME direttive ribadisce che l’incenerimento non è una buona pratica per il trattamento dei rifiuti, non è economia circolare e neppure una tecnologia sostenibile che favorisce l’ambiente e contrasta i cambiamenti climatici. Quindi, seguendo queste indicazioni, bisogna procedere alla graduale dismissione degli inceneritori, invece che ipotizzarne di nuovi come avviene in Italia.
MA TORNIAMO AL CASO BRESCIA ed all’altro tema controverso sulle emissioni in atmosfera di questi impianti. Si è già accennato alla particolarità di un impianto che oltre a produrre poca energia elettrica fornisce acqua calda che viene distribuita con tubazioni per centinaia di chilometri nelle case dei bresciani. Una seconda terribile trappola tecnologica con effetti perversi di cui i bresciani non riescono a liberarsi, ma che produce extraprofitti ad A2A: da un canto, il sistema, nato negli anni Settanta prima del riscaldamento climatico, oggi, dovendo comunque funzionare per l’intero anno, fa surriscaldare la città anche in estate, collocandola spesso al primo posto con record di temperature da «isola di calore», pericolose per la salute; inoltre a Brescia, di fatto, è stato quasi impossibile usufruire del superbonus del 110% per la ristrutturazione energetica, poiché le case, pur prive di coibentazione, quindi energivore e con bollette molto elevate, essendo allacciate al sistema A2A con l’acqua calda fornita dal teleriscaldamento alimentato dalla cogenerazione del megainceneritore, sarebbero già formalmente in classe A++ grazie al fatto che i rifiuti sono considerati energia rinnovabile da una strampalata norma nazionale. Comunque, questo sistema bresciano risulta di grande interesse per una valutazione oggettiva dell’impatto emissivo dell’inceneritore.
UN PRIMO TESTA CODA, A QUESTO proposito, si verifica con il Comune di Brescia, che gode degli ingenti utili (71 milioni del 2021) della stessa A2A di cui è proprietario al 25% e che, quindi, si fa portavoce acritico della propaganda di A2A per cui l’impianto sarebbe pressoché ad emissioni zero (clamoroso conflitto di interessi per un Comune che dovrebbe preoccuparsi di tutelare l’ambiente e la salute dei cittadini!). Anche l’Università di Brescia ci mette del suo con uno studio finanziato da A2A in cui certifica che l’impatto equivarrebbe ad uno 0,2%, sulla base di un astrusa modellistica teorica sulla dispersione delle ricadute dal camino alto 130 metri, enfatizzando le condizioni di buona ventilazione, in periodi peraltro non critici per le PM10.
STA DI FATTO CHE IN PIANURA PADANA l’Arpa valuta un contributo di circa il 30% del riscaldamento domestico alle concentrazioni di PM10 e PM2,5, nel periodo invernale particolarmente critico per la qualità dell’aria. Ora, a Brescia le caldaie private sono in massima parte sostituite dal teleriscaldamento alimentato dall’inceneritore: dunque, poiché questo sarebbe ad impatto pressoché zero, la qualità dell’aria di Brescia dovrebbe godere di circa un 30% in meno di polveri sottili rispetto alle altre città padane. Ma l’ultima e definitiva mazzata su questo assunto del tutto fallace è arrivata da uno studio reso noto il 21 gennaio 2021, che indica Brescia con il record assoluto di morti per PM2,5 a livello europeo. Lo studio condotto da ricercatori dell’Università di Utrecht, del Global Health Institute di Barcellona e del Tropical and Public Health Institute svizzero, pubblicato su una delle più prestigiose riviste scientifiche internazionali, The Lancet Planetary Health, applicando le linee guida Oms sulle polveri fini PM2,5, attesta che a Brescia potrebbero essere evitati 232 morti l’anno, il numero più elevato di tutte le altre città europee.
IN VERITA’ CI SONO ALTRI PRECEDENTI che confermano la cattiva qualità dell’aria, nonostante vi sia un mega inceneritore che «pulisce l’aria di Brescia»: l’Istat il 22 giugno 2010 presentò i risultati dell’analisi sulla qualità dell’aria in 221 città europee desunti da AirBase dell’Agenzia europea per l’ambiente (Eea), da cui risultò che nel 2008 Brescia fece registrare il terzo dato peggiore a livello europeo, dopo quello della città bulgara di Plovdiv e di Torino; nel 2013 Brescia aveva indossato la maglia nera per l’aria più inquinata d’Italia con una media annua di 31 μg/m3 di PM2,5, rispetto alla media nazionale di 18, certificata dall’Ispra nell’Annuario dei dati ambientali 2014 – 2015; la graduatoria stilata dall’Oms nel 2017 sulle concentrazioni di Pm 2,5 nelle città europee più sofferenti, dopo quelle polacche e orientali a tutto carbone, vede Brescia al 48esimo posto, unica città capoluogo di provincia dell’Europa occidentale in graduatoria; infine, nel 2018, delle 19 città italiane dove sono stati registrati valori oltre la norma giornalieri di PM10, ad aggiudicarsi la maglia nera è Brescia, con 87 sforamenti, come rivela l’edizione 2018 del rapporto Ispra sulla qualità dell’ambiente urbano che prende in esame 120 città e 14 aree metropolitane.
INSOMMA LA REALTA’ SEMBRA SMENTIRE, aldilà di ogni dubbio, la modellistica teorica sul presunto impatto pari allo 0,2% del mega inceneritore di Brescia. Un’altra buona ragione per non riproporre simili impianti in giro per le città d’Italia.
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