Più di 3,3 milioni di elettori sono chiamati alle urne domani, domenica 2 ottobre, in Bosnia-Erzegovina per rinnovare le maggiori cariche dello stato. Nel complesso sistema istituzionale bosniaco, nato con gli accordi di Dayton, si vota per eleggere i tre presidenti del paese – un bosgnacco, un serbo e un croato – così come per scegliere i membri dei parlamenti a livello di cantoni, entità e stato. Dalla fine della guerra nel 1995, la Bosnia-Erzegovina è composta da due entità: la Republika Srpska (RS), a maggioranza serba, e la Federacija (FBiH), dove vivono perlopiù bosgnacchi e croati, divisa a sua volta in dieci cantoni. Il tutto è tenuto insieme da un governo centrale, con sede a Sarajevo, che negli ultimi mesi ha dovuto far fronte a grandi spinte centrifughe.

La Bosnia va infatti alle urne in un contesto di grande instabilità. «La più grave crisi dalla fine della guerra», ha detto l’Alto rappresentante internazionale Christian Schmidt, il cui compito è quello di assicurare il rispetto degli accordi di pace. Le fonti di questa instabilità sono principalmente due. Da un lato, c’è il separatismo dei leader serbo-bosniaci, con le autorità della RS che hanno approvato a fine 2021 il ritiro dei propri rappresentanti dalle istituzioni centrali (con tanto di creazione di un esercito serbo-bosniaco alternativo a quello nazionale). Di fatto, è una secessione, ma il cui compimento è stato per ora rimandato a causa dello scoppio della guerra in Ucraina, o perlomeno questo è il motivo addotto da Milorad Dodik, il padre padrone della RS, al potere dal 1998.

L’altro fattore d’instabilità viene dalla Federacija. Qui, è la minoranza croata ad invocare da mesi una nuova legge elettorale, con lo scopo di cementare ulteriormente il sistema di rappresentazione etnica. Alle ultime elezioni, nel 2018, il candidato progressista Željko Komšić ha battuto il conservatore Dragan Čović e da allora i nazionalisti croati gridano all’imbroglio, accusando Komšić di essere stato eletto con i voti dei bosgnacchi. Ad oggi, costituzione bosniaca prevede che gli abitanti della RS eleggano il presidente serbo, mentre quelli della FBiH votano per i rappresentanti croato e bosgnacco, indipendentemente dall’etnia del votante. Ecco che per Čović e per Zagabria, il voto nella Federacija andrebbe a sua volta diviso, facendo in modo che solo i croati votino per il presidente croato.

A prima vista, queste questioni possono sembrare degli astratti dibattiti giuridici, ma in realtà servono ad alimentare la retorica dei leader nazionalisti e quella dei governi di Croazia e Serbia. Al suo ultimo intervento alle Nazioni Unite, la settimana scorsa, il premier croato Andrej Plenković ha invitato apertamente l’Alto rappresentante Christian Schmidt ad imporre de jure la nuova legge elettorale in Bosnia. Qualche giorno più tardi, ha ammesso: «Sono mesi che discutiamo in modo approfondito e discreto con l’Alto rappresentante».

Belgrado non si comporta diversamente. Due settimane fa il presidente serbo Aleksandar Vučić ha celebrato nella città bosniaca di Bijeljina l’inizio dei lavori di un’autostrada che collegherà la regione alla Serbia. «La chiameremo la strada dell’unità serba», ha dichiarato Milorad Dodik.

Di fronte a quest’offensiva centrifuga, c’è però chi crede e milita ancora per una Bosnia unita e, stando ai sondaggi della vigilia, questi movimenti hanno buone possibilità di spuntarla. Nella corsa per la presidenza, il candidato croato progressista Željko Komšić – il cui slogan è «per uno Stato dei cittadini» – è dato favorito contro la nazionalista Borjana Krišto. Tra i bosgnacchi, si annuncia un testa a testa tra il socialdemocratico Denis Bećirović e il nazionalista Bakir Izetbegović, il cui Partito d’azione democratica (Sda) rappresenta i bosgnacchi quasi ininterrottamente dalla fine della guerra. Infine, anche tra i serbi tira aria di cambiamento. Nella corsa per la presidenza della Republika Srpska, Milorad Dodik sfida Jelena Trivić. Entrambi rimangono su posizioni nazionaliste, ma una sconfitta di Dodik rappresenterebbe una svolta notevole.

Per le strade della Bosnia, che ci si trovi nella Republika Srpska o nella Federacija, il tema che preoccupa maggiormente i cittadini non è però di natura politica, quanto economica. In media, un lavoratore bosniaco guadagna circa 600 euro al mese, un pensionato poco più di 250 euro. Troppo pochi per far fronte alle tante spese e un’inflazione che quest’anno è a doppia cifra. Il risultato è un’emigrazione cronica: 500mila persone hanno lasciato la Bosnia dal 2013, 170mila solo l’anno scorso. Ecco che è difficile essere ottimisti davanti all’ennesima campagna elettorale in cui predominano i temi etnici. «Qui non cambierà mai nulla», dice sconsolato Enes Škrgo, il curatore della casa di Ivo Andrić a Travnik, «noi bosniaci abbiamo sempre due valigie pronte per partire».