Visioni

«Bonjour la langue», il senso del cinema nel gesto collettivo

«Bonjour la langue», il senso del cinema nel gesto collettivoPaul Vecchiali e Pascal Cervo in «Bonjour la langue»

Locarno 76 Fuori concorso il film di Paul Vecchiali, un omaggio a Godard e all’indipendenza dell’immaginario

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 agosto 2023

Lo sciopero di Hollywood non ha sconvolto i programmi del Festival di Locarno se non nella serata di inaugurazione privando la Piazza Grande della presenza di Riz Ahmed per la consegna del Premio Campari. Non è infatti un cinema di grossi budget streaming o hollywoodiani quello che abita gli schermi della rassegna ticinese pure se la Piazza quest’anno ha ritrovato la possibilità di proiettare in anteprima per il pubblico che la affolla alcuni titoli attesi della prossima stagione – è passato con successo la Palma d’oro Anatomie d’une chute di Justine Triet e oggi è la volta di The Oak, il nuovo film di Ken Loach, anch’esso in concorso a Cannes.

GIUNTO alla sua 76a edizione il festival è tradizionalmente rivolto per scelta editoriale – e forse ora anche per necessità vista la posizione nel calendario che lo stringe tra il festival di Cannes e la Mostra di Venezia – a un cinema più autoriale e indipendente declinato di volta in volta secondo i suoi direttori, che nella visione di Giona A.Nazzaro privilegia una fusione tra generi e sentimento del contemporaneo. Con qualche detour eccentrico rispetto «l’aria dei tempi» intesa come stile e forme narrative.
È abbastanza interessante vedere a proposito come si siano rimodulati i gusti del pubblico tornato dopo le incertezze post-pandemiche compresi i cinefili pendolari o quelli che nei parcheggi liberi (sempre di meno) dormono in camper per fare fronte ai prezzi del Ferragosto che sono alti come sempre in Svizzera ma in fondo a leggere le cronache italiane di questi giorni non così distanti dai nostri – media panino 6 euro contro i 10 in qualsiasi stabilimento balneare italiano. Grazie al passaggio di Circe (la tempesta rinfrescante) il lago li ha accolti con infinite sfumature di blu specchiando un cielo limpido sotto al quale famiglie, coppie, pensionati si aggirano tra i caffé sulle rive, le spiagge (libere), i lidi regalandosi magari una serata in Piazza (nonostante qualche lamentela sull’eccessivo costo dei biglietti).
Un padre e un figlio, le affinità e gli scontri, la famiglia non biologica

OMAGGIO fuori concorso al regista mancato lo scorso gennaio l’ultimo e sempre sorprendente film di Paul Vecchiali in cui l’autore – che era nato a Ajaccio nel 1930 – sembra mettere insieme con estrema dolcezza le passioni cinefile di una intera esistenza, gli amori, le complicità, la visione del mondo, una vita che si fa cinema (e viceversa) nell’incontro tra un padre, lui stesso, e un figlio Pascal Cervo protagonista di tanti suoi film. Che si ritrovano dopo una violenta rottura sei anni prima, dopo lutti e perdite dolorosissime, in una vecchiaia che si è fatta per il padre solitudine e dolore con la morte della moglie e della figlia in un incidente d’auto. Alla fragilità dell’anziano seduto nel giardino della casa si oppone la rabbia del giovane ormai anche lui uomo adulto e padre eppure sempre figlio; che si è fermato per caso lì scendendo dal suo treno senza sapere nemmeno il perché.
Pian piano nel corso di una lunga giornata i loro corpi dapprima distanti nella volontà di cesura del figlio ritrovano le affinità intime del loro stare insieme tra i ricordi comuni (cinematografici anch’essi con Vecchiali e Cervo più giovani in un altro film di Vecchiali).
Il figlio si chiama Jean-Luc, il film è dedicato a Godard sin dal titolo, Bonjour la langue, un controcampo a Adieu au language, e nelle frasi che si scambiano i due ritornano i titoli dei film godardiani, un gioco di parole e di complicità parte di un sentimento comune dell’esistere nutrito dal cinema, dalle visioni condivise, da una sensibilità che non ha bisogno di parole. È la filiazione biologica o sentimentale, è essere vicini e parte di una famiglia allargata, sono le infinite sfumature dell’amore; che questo che il film ci dice e Vecchiali ci lascia di prezioso qui e in tutta la sua opera. Un senso forte della comunità in cui lui credeva con convinzione, un immaginario limpido costruito sull’amicizia, sull’umanità, su un sentimento collettivo, con scelte estetiche e politiche mai autoritarie. Il contrario di quanto spesso si ritrova oggi, che il regista non ha mai perso di vista, con la grazia di un’ironia capace di guardare oltre se stesso.

IN CONCORSO ieri il primo titolo italiano Patagonia di Simone Borzelli, on the road di formazione fra rave e un rapporto d’amore e di potere che unisce e separa i due giovani protagonisti. In gara – e nei «tutto esaurito» del fine settimana – c’è anche Yannick di Quentin Dupieux, il Mr.Oizo di Flat Beat, una double identity come la sua attività tra cinema e musica elettronica per una produzione iperattiva (dieci lungometraggi tra cui Mandibules e Le Daim di cui cinque negli ultimi quattro anni, e un altro già pronto, Daaaali! che sarà fuori concorso a Venezia). Personaggio amatissimo in quell’’«aria dei tempi» nei suoi film crea parodie sull’umano, i suoi limiti, le sue ossessioni fra le quali lo spettatore finisce suo malgrado per specchiarsi.

È QUESTO il meccanismo anche di Yannick (l’attore Raphael Quenard) esibito dal dispositivo di regia: siamo infatti in un teatro da cui non si uscirà mai, dove si recita un vaudeville mediocre, Le Cornu. A un certo punto dal pubblico un tizio interrompe la rappresentazione infilando una serie di lamentele: lui che fa il guardiano di notte si è preso una serata libera, quindi vuole divertirsi mentre quello spettacolo è brutto e noioso. Non è questione di soldi e poi è uno di quelli che se ci si mette lui «le banane» (vedi Andy Warhol) le fa meglio nella sua cucina. A questo punto è chiarissimo che sbatterlo fuori non basta, perché tornerà a prenderli in ostaggio: del resto non è questo che ogni spettacolo fa con il suo pubblico?
In una intervista a «Liberation» – il film è uscito in Francia il 2 agosto – Dupieux dice: «Abbiamo utilizzato dei codici ma dal vero, girando in tempo reale con 50 persone che erano nel pubblico senza sapere cosa accadeva». Reality? Forse. Così se una pistola si fa rivelatoria di frustrazioni e poteri secondo chi la maneggia, questa «presa in ostaggio» cambia di peso se vengono abbattute le frontiere tra chi guarda e chi crea. Il segnale di un pericolo? O di fascinazione? La questione è interessante se non fosse che Dupieux la satura col rischio di cadere nella stessa mediocrità che tanto sbeffeggia.

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