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Bolivia, nel parlamento deserto Jeanine Añez conclude il golpe

Bolivia, nel parlamento deserto Jeanine Añez conclude il golpeLa protesta indigena a La Paz contro il golpe in corso in Bolivia – Afp

A tutto golpe L’autoproclamata presidente ad interim sfrutta l’assenza dei deputati del Mas che annunciano: «Non la riconosciamo»

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 14 novembre 2019

Tutto il fervore democratico ostentato dalla destra durante le proteste contro Evo Morales si è sgonfiato in un attimo: l’autoproclamazione della seconda vicepresidente del Senato Jeanine Áñez come presidente della Repubblica, durante una sessione straordinaria dell’Assemblea legislativa senza quorum parlamentare per la mancata partecipazione del Mas, è una conferma pesante del golpe consumato in Bolivia.

Il deputato del Movimiento al Socialismo Sergio Choque aveva assicurato lunedì l’impegno dei «parlamentari eletti dal popolo» a «compiere quanto stabilito dalla Costituzione» su cui avevano «giurato il giorno del loro insediamento», in maniera da «riportare la pace tra il popolo boliviano». Ma aveva chiesto, per poter prendere parte alla sessione parlamentare, che venissero garantite misure di sicurezza per loro e per i loro familiari.

Cosa poi abbia indotto i deputati del Mas, che costituiscono più di due terzi del Parlamento, a disertare l’Assemblea legislativa – se la mancanza di tali garanzie o piuttosto una precisa strategia diretta a boicottare l’azione delle forze golpiste – non è dato al momento saperlo. Fatto sta che la senatrice dell’Unión Demócrata Jeanine Áñez, che, dopo essersi ritrovata prima nella linea di successione presidenziale dopo le dimissioni a raffica di quanti la precedevano, si era precipitata a rivendicare per sé la presidenza a interim, ha proceduto ad assumerla dinanzi a un Parlamento semideserto, dunque in aperta violazione del testo costituzionale, impegnandosi «ad adottare tutte le misure necessarie per pacificare il paese».

Cosa poi la neopresidente ad interim intenda per pacificazione, era risultato chiaro già il giorno precedente, quando aveva quasi intimato al comandante generale delle Forze armate boliviane Williams Kaliman di schierare l’esercito a fianco della polizia nazionale per fermare «le orde delinquenziali» del Mas. Un compito, questo, preso molto sul serio dalle forze di sicurezza, se è vero che tra le sette vittime delle proteste in corso finora confermate dalla Procura generale della Bolivia, cinque sono morte in seguito a colpi di arma da fuoco sparati da militari e polizia. E intanto gli scontri non accennano a diminuire, mentre i cocaleros riuniti nella Coordinadora de las Seis Federaciones del Trópico de Cochabamba hanno annunciato per oggi l’inizio di una «mobilitazione nazionale» che andrà avanti – come ha annunciato in conferenza stampa il vicepresidente dell’organizzazione Andrónico Rodríguez – «finché Morales non tornerà a occupare la presidenza della Bolivia».

E di certo non è pensabile che l’autoproclamazione di Áñez possa contribuire a riportare la pace nel paese, dal momento che il Movimiento al Socialismo ha già dichiarato di non riconoscerla e, dal suo esilio in Messico, Evo Morales ha gridato al colpo di stato. Neppure sembrava molto diretto alla pacificazione, del resto, lo show a cui l’autoproclamata presidente ha dato vita entrando trionfalmente nel palazzo del governo con una monumentale bibbia in mano, trasformata in un vessillo di potere anti-aymara, e ripetendo le parole rese ormai (tristemente) celebri dal leader del Comitato civico di Santa Cruz Luis Fernando Camacho: «la Bibbia tornerà al palazzo di governo». Il suo disprezzo per i popoli indigeni la neopresidente aveva peraltro già avuto modo di esprimerlo sulle reti sociali, quando, nel 2013, alla vigilia del capodanno aymara, che si celebra il 21 giugno con un rito che simboleggia il ritorno del sole e il nuovo ciclo agricolo, aveva scritto su Twitter: «Ma quale anno nuovo aymara? Satanici, Dio nessuno lo sostituisce».

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