Come gli scorpioni, prima di cedere il generale golpista boliviano Juan José Zúñiga ha dato il colpo di coda. In cauda venenum, mettevano in guardia i romani. Il veleno inoculato da Zúñiga è la dichiarazione fatta al momento del suo arresto: «Si è trattato di un autogolpe voluto dal presidente Luis Arce, in crisi, per riconquistare popolarità». E l’esercito, da lui rappresentato, è intervenuto perché «è il braccio armato del popolo» che «si oppone a uno Stato tenuto in ostaggio di una élite che ha il solo scopo di mantenersi al potere».

Poco importa se l’élite è stata eletta quattro anni fa col 55% dei voti. E che storicamente i militari boliviani siano stati il braccio armato delle destre (ben 39 colpi di stato fra tentati e riusciti). Come fu nel 2019 quando insorsero contro l’allora presidente Morales e imposero il governo di Jeanine Áñez ( attualmente in galera).

La tesi dello «show mediatico» di un governo traballante per contraddizioni interne è stata naturalmente sostenuta apertamente dalla destra estrema – la deputata Luis Nayar, legata al leader di Santa Cruz, Luis Fernando Camacho (pure lui detenuto per il golpe del 2019). E, più velatamente, da quella “presentabile” come l’ex presidente Carlos Mesa, il quale si è espresso contro il pronunciamento armato, ma per mettere in chiaro che l’inetto governo di Arce deve essere battuto nelle elezioni del prossimo anno.

Alla crisi politica ed economica – quest’ultima manifestatasi con una scarsezza di carburante e di valuta estera – che fa da sfondo al tentato golpe ha contribuito l’aspra lotta per il controllo del partito (di governo) Movimento al socialismo, Mas, tra Arce e l’ex presidente Evo Morales. Quest’ultimo, quasi ossessionato nel tentare di ripresentarsi come candidato alle presidenziali del prossimo anno, accusa il presidente di essersi impadronito della direzione del Mas per emarginarlo. A sua volta Arce ha direttamente indicato Morales come l’ispiratore di scioperi e proteste popolari per indebolire il governo e la sua presidenza.

Il presidente Arce ha dimostrato fermezza e coraggio nel dar la cara al generale golpista e sopratttutto chiamando alla mobilitazione le forze popolari che, anche quattro anni fa, si sono opposte all’intervento armato e ne hanno pagato il prezzo. Questa è anche un’indicazione di come dovrà procedere nei prossimi mesi il governo progressista, favorendo un controllo civile e popolare sulle forze armate.

Chi ha preso molto sul serio la prova di forza in Bolivia, sono stati i leader progressisti del subcontinente latinoamericano, dal presidente di Cuba Miguel Díaz-Canel al brasiliano Lula da Silva, passando per l’honduregna Xiomara Castro, leader pro tempore della Celac (la Comunità di stati dell’America latina e dei Caraibi), il messicano Andres Manuel López Obrador, il colombiano Gustavo Petro, il cileno Gabriel Boric. Le accuse contro uno Stato facilmente controllato da élite (di sinistra naturalmente) sono troppo assimilabili al vento di estrema destra dell’argentino Javier Milei. Il quale ha passato gran parte del suo tempo negli ultimi mesi a viaggiare all’estero – soprattutto in Europa – per presentarsi come il leader di una destra globale fascistizzante.

“La unica izquierda buena es la de Messi, lo demás es todo descartable” è il celebre messaggio continentale di Milei. Un messaggio amplificato dalle potente corporazioni neopentecostali e sostenuto dal generale Laura Richardson, capo del SouthCom degli Usa, fautrice di una moderna versione della dottrina Monroe. Ovvero che le risorse del subcontinente americano – acqua, litio, petrolio eccetera – devono essere sotto il controllo «degli americani», ovvero degli Usa.