Blinken-Lavrov, dieci minuti, un cambio di passo
Commenti Una conversazione di neppure dieci minuti. Temi appena sfiorati: la ripresa dei negoziati Start. Il caso della detenzione per spionaggio del cittadino americano Paul Whelan. Eppure segna una svolta politica, […]
Commenti Una conversazione di neppure dieci minuti. Temi appena sfiorati: la ripresa dei negoziati Start. Il caso della detenzione per spionaggio del cittadino americano Paul Whelan. Eppure segna una svolta politica, […]
Una conversazione di neppure dieci minuti. Temi appena sfiorati: la ripresa dei negoziati Start. Il caso della detenzione per spionaggio del cittadino americano Paul Whelan. Eppure segna una svolta politica, l’incontro tra i due top diplomatici di Usa e Russia a New Delhi, giovedì scorso in margine al G20.
È il primo ai più alti livelli tra rappresentanti della Casa bianca e del Cremlino dall’inizio del conflitto, un anno fa. Ed è avvenuto su richiesta statunitense. In precedenza, un incontro del genere col suo omologo russo Sergej Lavrov era stato volutamente schivato dal segretario di stato Tony Blinken, in occasione di vertici internazionali con più partecipanti.
Se le dichiarazioni dopo l’incontro non indicano un mutamento nei toni dello scontro delle parole tra Washington e Mosca, questo è parte del gioco diplomatico, prevedibile in un contesto bellico come quello in corso. Con uno spiraglio, adesso, che non è né casuale né incidentale, ma voluto, e pertanto «politico».
Da questo punto di vista, l’iniziativa interessa innanzitutto l’amministrazione Biden. Facendosene promotrice, ha dato il chiaro segnale di voler aprire un percorso. Prematuro e azzardato definirlo negoziale. Più realisticamente mira a che ci si muova in una certa direzione, quella di evitare che il prolungarsi della guerra, e l’impantanamento in essa dell’America, coincida con l’entrata nel vivo della corsa presidenziale del 2024, già di fatto iniziata.
Finora, nel Congresso, c’è stato un sostegno complessivamente unanime al sostanzioso aiuto in armi e in dollari a Kiev, con qualche occasionale contestazione, da parte repubblicana soprattutto, i libertari di Ron Paul e i più estremisti tra i fedeli di Trump.
Al livello di opinione pubblica, la guerra non è mai arrivata in cima ai temi più sentiti, se non per le sue conseguenze sull’economia. Il fatto che non siano coinvolti direttamente sul terreno militari americani, la fa avvertire distante e scarsamente coinvolgente. Il giro di boa del primo anno di guerra cambia però il contesto. La sua durata adesso non è più questione di un periodo limitato ma indefinito, il che pone interrogativi sul protrarsi del sostegno americano a Kiev, senza un chiaro obiettivo finale in vista. Alla camera dei rappresentanti, martedì scorso, i repubblicani non sono stati teneri con le loro domande ai dirigenti del Pentagono sulle decine di miliardi di dollari inviati in aiuti militari e di altro tipo all’Ucraina, lasciando intendere che nuovi stanziamenti, inevitabili con il protrarsi del conflitto, saranno attentamente scrutinati e probabilmente non approvati. Anche nel Partito democratico dubbi e vere e proprie critiche si fanno più frequenti, non solo da parte di esponenti della sinistra interna.
E mentre dal fronte di guerra le notizie non cessano di parlare di morte e distruzione, Washington è meta in questi giorni di leader europei, il cancelliere Scholz e prossimamente Ursula von der Leyen. La politica diplomatica tra le due sponde dell’Atlantico sembra in fermento e l’attivismo di Blinken a Delhi, sulla questione ucraina, con i suoi omologhi del G20, diciotto dei quali hanno condannato l’invasione russa, sono sintomi di un cambio di passo a Washington, destinato a diventare più evidente nei prossimi mesi, quando il rischio che una guerra senza fine e senza limite in quanto ad aiuti da parte americana entri nel dibattito politico e quindi nella campagna elettorale per la rielezione di Biden e per la riconquista della maggioranza democratica nei due rami del Congresso. Non sono più tempi in cui la politica internazionale e le crisi in cui erano coinvolti gli Usa godevano di un sostegno bypartisan.
Quel che si è visto nei giorni scorsi alla House è solo l’anticipo di una campagna politica da parte repubblicana contro il commander-in-chief, peraltro non sostenuto da tutto il suo partito. Nella sua missione a Kiev e in quella successiva, a sorpresa, della segretaria al tesoro Ellen Yellen, è stato spiegato a Zelensky che una road map verso l’uscita dal pantano della guerra è anche nell’interesse dell’Ucraina. Se Biden sarà confermato presidente e se ci sarà di nuovo una maggioranza democratica al Congresso, l’Ucraina potrà continuare a contare sul sostegno di Washington. Diversamente con il ritorno di Trump, o anche con l’avvento di altro presidente repubblicano, il ripristino di relazioni con Mosca sarebbe tra le priorità, con l’evidente conseguenza di un ricalibramento profondo del rapporto con Kiev.
Il progressivo avvicinarsi dell’incrocio tra le presidenziali e l’escalation della guerra è dunque già nell’aria. È interesse per Biden ma anche per Zelensky che questo non avvenga. Ma lo è per Vladimir Putin? Qual è il suo calcolo? E se fosse dettato dalla tentazione di influire, lui, sulla campagna presidenziale?
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