Sarà stato l’attacco al convoglio del World Central Kitchen l’ultima goccia? L’uccisione degli operatori umanitari occidentali, fra cui un americano, sarà l’evento a determinare infine una svolta epocale nei rapporti fra Israele ed il suo storico sponsor, gli Stati uniti? Per tentare di capirlo si analizzano le parole del presidente Biden nelle telefonate con Netanyahu. L’ultima avrebbe segnato un nuovo passo nell’escalation di avvertimenti come ha confermato John Kirby, portavoce della national security che ha sintetizzato le condizioni imposte da Washington: indagini «effettive» sull’accaduto, apertura dei varchi, passaggio di «almeno 350 carichi» di aiuti al giorno, misure concrete per garantire la sicurezza degli operatori umanitari.

Oltre ai passi specifici, Kirby ha calcato sulla necessità di concludere al più presto le operazioni militari ed una ripresa più seria dei negoziati, aggiungendo che la postura degli Stati uniti verrà determinata da quella che Washington ravviserà nelle azioni di Israele nei confronti della sicurezza dei civili. «Se non vedremo passi concerti su Gaza, li dovremo prendere noi». È vero che l’asprezza del linguaggio è inficiata dalle forniture di bombe e cacciabombardieri che contemporaneamente proseguono senza sosta, ma la tensione fra Washinton e Tel Aviv non ha tuttavia precedenti in una storia segnata dal sostegno incondizionato anche nei momenti di “divergenza”.

L’attacco alla Ong del celebrity chef José Andrés, pur dopo l’uccisione di altri 200 operatori umanitari (per non dire dei 33.000 civili), potrebbe dunque essere quello che segna la svolta. Ma è chiaro che un’inversione di rotta vi era già stata, culminata nell’astensione che ha permesso l’approvazione della risoluzione Onu sul cessate il fuoco. Altrettanto evidente è il peso dei sondaggi che vedono ormai il 50% degli americani contrari all’azione militare di Israele a Gaza e solo il 36% favorevole.

Si tratta di un cambiamento epocale, amplificato da un anno elettorale in cui la questione palestinese potrebbe avere un inedito peso. Martedì scorso le primarie democratiche in Michigan hanno registrato il 10% di schede di protesta uncommitted, ampiamente superiore allo scarto con cui Biden era prevalso su Trump quattro anni fa. Percentuali ancor maggiori c’erano state in Minnesota ed in Michigan – percentuali su cui Biden potrebbe giocarsi la rielezione.

L’opinione pubblica americana è insomma retrovia sempre più cruciale del conflitto. L’Aipac (American Israel Pubblica Affairs Committee), braccio politico si Israele in USA, ha intensificato l’opera per rafforzare il sostegno dei parlamentari ed annunciato una offensiva di 100 milioni di dollari per spodestare dal Congresso i 10 parlamentari più filo palestinesi fra cui Alexandria Ocasio Cortez e Rashida Tlaib. Altrettanto degna di nota però, è stata l’iniziativa indetta la scorsa settimana da un’ampia coalizione di associazioni ebraiche anti sioniste fra cui If Not Now e Jewish Voice for Peace, proprio per allentare la morsa di Aipac su entrambi i partiti. Più singolare ancora era stato l’attacco diretto a Netanyahu il mese scorso dal leader democratico Chuck Schumer, capo della maggioranza democratica al Senato e politico ebreo più altolocato del paese. Il senatore storicamente filo israeliano, ha denunciato la politica che rischia di «isolare Israele nel mondo».

È stato l’ultimo sintomo di un riallineamento, che, al di là della politica, investe la stessa identità della maggiore comunità della diaspora ebraica. Come ha recentemente scritto sul New York Times Peter Beinert, la strage di Gaza sta provocando una profonda spaccatura all’interno della comunità jewish americana che, storicamente liberal e tendenzialmente laica, si trova ora dinnanzi ad una scelta che molti decidono di compiere in chiave antisionista. Contemporaneamente a questa frattura (in gran parte generazionale) il riallineamento vede il partito repubblicano proporsi sempre più come nuova controparte politica del governo israeliano radicalizzato dalla destra. Se già nel 2015 i conservatori avevano invitato Netanyahu a parlare alle camere riunite come sfregio alla détente iraniana di Obama, oggi sono i Maga ad esprimere il sostegno più assoluto allo stato ebraico.

Eppure perfino Trump, il presidente che a suo tempo ha spostato l’ambasciata americana Gerusalemme, potrebbe avere dei ripensamenti. Questa almeno la valutazione di Israel Hayom, giornale della destra sionista israeliana, che, dopo averlo intervistato la settimana scorsa, ha scritto che su Gaza «Trump ha sorpassato Biden a sinistra». Nell’intervista, infatti, l’ex presidente ha messo in guardia Gerusalemme sul «danno di immagine» provocato dalla guerra, esortandola a «finire al più presto il lavoro». Una posizione da cui esulano certo scrupoli pacifisti, ma sui cui pesano invece, anche qui, opportunistiche considerazioni elettorali, di cui tuttavia anche Netanyahu dovrà tenere conto.