A vederla sul palco a metà anni Novanta, aggrappata al microfono e intensamente concentrata, in perenne tensione emotiva mentre intona liriche malinconicamente introspettive, Beth Gibbons rappresentava l’opposto concettuale delle istrioniche rockstar da videoclip. Maglia monocroma scura, pantaloni a sigaretta, testa incassata fra le spalle.

La musicista allora trentenne appariva sofferente, corrucciata, completamente persa nella battuta lenta che i suoi Portishead avevano scelto per scandire i brani del disco che resta ancora il loro bestseller: Dummy.

A distanza di tre decenni, l’artista inglese si è ritagliata uno spazio di credibilità e autorevolezza fondamentale, frutto di una selezione ponderatissima delle sue produzioni e collaborazioni.

Il suo primo album solista, Lives Outgrown (uscito quest’anno su Domino Records) è senza dubbio la raccolta della maturità, in cui la pacatezza generale dei suoni si scontra con l’amarezza dei testi, la morbidezza delle percussioni viene soverchiata dagli stridori e dalle elegie degli archi. Un disco non immediatamente accessibile, che solo con un paziente ascolto può svelarsi nella sua complessa e drammatica struttura compositiva.

Ma Lives Outgrown è anche un lavoro che riflette sulla vita e sulla morte, sulla speranza e sulla sua mancanza, sul cambiamento del corpo e sulla sua inevitabile caducità. Un ulteriore step nel percorso artistico di Gibbons, ma a suo modo la conclusione di un periodo creativo durato decenni, in cui l’unione fra classico e moderno ha portato e risultati spesso memorabili.

BRISTOL

Legati in maniera indissolubile alla scena di Bristol e ai suoni che hanno letteralmente cambiato la storia della musica europea, i Portishead restano la band trip hop dall’immaginario più suggestivo, elegantemente a loro agio sia nella proposta downtempo sia nella scelta di utilizzare elementi sonori magnificamente vintage.

Nelle loro texture musicali si può percepire una grana da pellicola cinematografica, che sorprese nel 1994 con l’esordio Dummy e poi esplose nel successivo album omonimo, apparso nel 1997 come un oggetto sonoro completamente decontestualizzato.

Correva l’anno in cui il Britpop frantumava i record con Oasis, Verve e Blur, la scena dance e rave celebrava i Prodigy, i Radiohead pubblicavano Ok Computer e gli Spiritualized uscivano con Ladies and Gentlemen We Are Floating in Space. E nel mezzo, tonanti e misteriose, partivano le trombe di All Mine, il singolo che lanciò il secondo disco dei Portishead, costruito su una batteria solenne e stentorea, che donava potenza alla voce appassionata di Beth Gibbons.

La miscela vincente era ovviamente merito di una congiunzione artistica fra le chitarre di Adrian Utley, la produzione sommersa di sample di Geoff Barrow e l’interpretazione accorata di Gibbons.

Proprio i campioni usati da Barrow restano distintivi del suono à la Portishead e provengono solitamente da vecchi vinili, frammenti jazz dimenticati, colonne sonore fuori circuito, gemme soul e funk. La nostalgia e il mistero che si inseriscono nelle atmosfere gloomy trovano un’alchimia perfetta con la vulnerabilità e l’analisi introspettiva delle liriche, dove la malinconia e la complessità delle relazioni umane creano un’eco con il recente album Lives Outgrown.

Destinati a un successo mondiale e duraturo, incensati dalla critica e dal pubblico, i Portishead giungono nel 1998 alla consacrazione grazie all’album Roseland NYC Live, realizzato assieme a una filarmonica e inizialmente pubblicato in vhs.

Nessuno si aspetta che questo disco di trip hop e arrangiamenti orchestrali diventi il loro greatest hits, nonché preludio a dieci anni di silenzio, spezzati un’ultima volta nel 2008 con il pregevole Third.

Questo ritorno attira l’attenzione soprattutto dei fan già acquisiti e di un gruppo di ascoltatori sofisticati, che si imbattono in atmosfere umbratili sostenute da ritmi kraut. In The Rip la chitarra acustica viene sfiorata dalle dita di Utley e dalla voce di Gibbons, subito seguite da un giro di tastiera che sembra uscito da un brano dei Kraftwerk. È proprio l’apertura di Silence a presentare la nuova formula della band di Bristol, non discostandosi dai temi generali del passato ma integrando stop e ripartenze, pieni e vuoti, con grande tensione.

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L’antidiva Beth Gibbons

L’inizio degli anni Duemila, per Beth Gibbons, è un periodo di sperimentazione, che prima di arrivare al Third coi Portishead la porta alla pubblicazione di un disco con Paul Webb, ex bassista dei Talk Talk, meglio noto come Rustin Man.

Nel 2002 Out of Season crea molta attenzione, le riviste specializzate e il suo pubblico di riferimento si struggono per questa collezione di folk song classicheggianti, per i fiati orchestrali della jazzata Tom the Model, per l’elegia dell’imperdibile Romance.

L’album, che vede la presenza non di poco conto del collega Adrian Utley, resta ancora una delle migliori cose firmate da Gibbons, che acquista valore col passare degli ascolti e che ha davvero l’aria di un grande classico. Registrato in uno studio di campagna per catturare un suono naturale e autentico, questo disco «fuori stagione» racconta di perdita e nostalgia, solitudine e rimpianti, anche del tempo che passa e che cambia persone e situazioni.

Vi è, senza dubbio, una certa dose di disperazione, perfino naturale per certe diramazioni più convenzionali del suono, ma Out of Season è una coerente virata cantautorale che trova la sua strada senza l’ingombrante intervento dell’elettronica.

LE COLLABORAZIONI

Poche informazioni circolano sulla vita personale e artistica dell’interprete, scandita da una serie di collaborazioni selezionate, come quella nel coro di Sing, che Annie Lennox realizza per una campagna contro il virus Hiv. Assieme alla celebrità franco-britannica Jane Birkin, Gibbons pubblica la sua vibrante Strange Melody, per poi passare alla profondità dark digitale di Show (con Gonjasufi) e al climax di piano ed elettroniche di Mother I Sober, nel più recente album di Kendrick Lamar.

La più importante collaborazione, però, è quella con la Polish National Radio Symphony Orchestra, diretta da Krzysztof Penderecki. Nel 2014 viene infatti registrata – magistralmente – una sua performance per la Symphony No. 3 (Symphony of Sorrowful Songs), dello scomparso compositore polacco Henryk Górecki.

Drammatica e anche autenticamente ricca di speranza, quest’opera viene interpretata perfettamente da Beth Gibbons, che per l’occasione impara minuziosamente il testo in lingua madre. La pubblicazione del 2009 resterà appannaggio di un gruppo di appassionati e raggiungerà solo parzialmente i fan dei Portishead, ma la performance interpretativa creerà comunque un ponte fra i generi e le generazioni di ascoltatori.

Proprio il superamento dei generi è un tratto intrinseco ai Portishead, che singolarmente hanno intrapreso carriere soliste e collaborazioni decisamente degne di attenzione.

Geoff Barrow, ad esempio, da oltre un decennio porta avanti due progetti estremamente originali come Beak e Quakers. Il primo, che ha raggiunto una discreta eco mediatica, torna al kraut e al rock sperimentale con un taglio oscuro e destabilizzante, obliquo e volutamente «danneggiato» nella produzione dei suoni, tanto da far smarrire il suo pubblico in visioni allucinate e psichedeliche.

Con il progetto Quakers, invece, Geoff orbita attorno alla storia dell’hip hop e delle sue (de)generazioni, esplorando le origini del beat e le sue infinite possibilità di interazione creativa. La chitarra di Adrian Utley, d’altro canto, è stata prestata a innumerevoli artisti di particolare rilevanza, come Jeff Beck, Sparklehorse, John Parish, Goldfrapp, Marc Almond e molti altri.

Con l’uscita di Lives Outgrown e l’attenzione mediatica tornata a ruotare attorno a Beth Gibbons, sembra improbabile che i Portishead possano pubblicare a breve un nuovo album da studio, ma proprio Utley ha ultimamente svelato che qualcosa si è messo in moto. Il processo di scrittura pare iniziato senza che la band abbia firmato alcun contratto discografico e la pianificazione degli impegni del trio dovrebbe presto subire delle pause mirate, proprio per velocizzare il processo di scrittura e registrazione.

Nel frattempo, non resta che perdersi nelle suadenti e dolorose liriche di Lives Outgrown, fiduciosi che anche i brani dei Portishead si riveleranno come i cuori del brano Whispering Love: «They will run/They will rise where they can/Where they know they are safe to go» (Correranno/cresceranno dove possono/dove sanno che è sicuro andare).