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Bersani sbaglia. Meglio separarsi prima di essere indifendibili

Partito della nazione Ci sono buone, buonissime ragioni, e non necessariamente “di sinistra”, ma semplicemente di equità e di legalità, per dissentire da misure della legge di stabilità quali la cancellazione tout court […]

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 18 ottobre 2015

Ci sono buone, buonissime ragioni, e non necessariamente “di sinistra”, ma semplicemente di equità e di legalità, per dissentire da misure della legge di stabilità quali la cancellazione tout court della tassa su tutte le prime case e l’innalzamento a 3mila nell’uso dei contanti. Come va facendo giustamente la minoranza Pd. Dissensi che vanno ad aggiungersi a molti altri: sulla Costituzione, sull’Italicum, sul jobs act, sulla scuola, sulle liberalizzazioni (revocate), sulla responsabilità civile dei magistrati, su contrattazione e rapporto con i sindacati e, di qui a poco, sulla Rai. Dove già si è provveduto a nomine mediocri e lottizzate profittando della legge Gasparri e ora ci si accinge a fare una riforma che riforma non è (nulla sulla mission del servizio pubblico, sui tetti pubblicitari, sulla complessiva visione del sistema informativo, scomparsa ogni traccia del modello BBC che pure figurava nella storiche proposte del centrosinistra da Veltroni a Gentiloni). La solita lottizzazione del cda e semmai un di più di presa sulla Rai da parte del governo che si nomina il vero dominus dell’azienda nella persona del suo ad. L’opposto del mantra bugiardo del cosiddetto passo indietro della politica.

Una minoranza che dissente su tutte le questioni che contano, che, a parole, denuncia – Bersani dixit – che «si sta portando il Pd da un altra parte», che leva alte grida contro il soccorso di Verdini ma poi non ne trae le conseguenze. Semmai reitera comportamenti alla lunga indifendibili, distinguendosi in parlamento, contro un vincolo politico prima che disciplinare, per chi sta in un partito degno di questo nome. Dove ci si conforma ai deliberati della maggioranza. Eppure Bersani si ostina a ripetere «separazione? Tre volte mai». Francamente non lo capisco.

Per parte mia sarei meno polemico ma più risoluto, più conseguente: si prenda atto di differenze ideali, politiche e programmatiche non componibili in un medesimo partito e ci si separi, senza reciproci anatemi. È sempre più evidente che il Pd di Renzi è cosa diversa dal Pd concepito nel solco dell’Ulivo, quale partito di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra. Lo si chiami partito della nazione, pigliatutti, partito unico di governo, grande centro. Come si può negare una tale evidenza? Solo se si presta credito a slogan funambolici ed esorcistici di cui è prodigo il premier, del tipo: il jobs act è la legge più di sinistra di questo governo; così pure di sinistra sarebbe la legge di stabilità che tanto piace a imprenditori e commercianti; l’Italicum è la più democratica delle leggi elettorali (tutte formule renziane).

Da tempo, inascoltato, sostengo che non è né saggio né utile esasperare il conflitto interno e logorare gli stessi rapporti personali. Anche perché, separandosi da buoni amici, ci si potrà eventualmente alleare domani, se matureranno le condizioni, tra un centro renziano e una sinistra di governo, uniti e distinti dal celebre trattino, al modo del centrosinistra storico basato sull’’asse Dc-Psi. Su un programma negoziato. Fare un grande centro non è una bestemmia. Ma certo è cosa diversa dal Pd versione prodiana. Perché la minoranza bersaniana è così indisciplinata ma, insieme, ostinata nel rifiutarsi anche solo di considerare l’ipotesi di una serena separazione? Mi do tre risposte: 1) perché vittima del mito unitarista del partito di marca comunista, l’opposto di una concezione laica di esso quale strumento servente una politica in cui ci si riconosce (il fine è la politica, non il partito, un mezzo, che si può cambiare senza drammi); 2) perché, sottostimando sia lo statuto Pd che disegna un partito fondato sulla democrazia di investitura del leader sia la stessa soggettiva vocazione di Renzi a un leaderismo spinto, ci si illude di potere strappare una gestione consociativa del partito, magari una gestione a due (del resto il tanto celebrato – dalla minoranza Pd – “metodo Mattarella” fu una decisione presa in due, Renzi e Bersani, il più verticistico dei metodi, considerato che i grandi elettori Pd non furono mai consultati ma solo informati a un’ora dal voto per il Quirinale) 3) forse anche un certo sistema di interessi diffusi che ha il suo baricentro in Emilia e che – il caso dei ministri modulo Poletti insegna – malvolentieri abbandonano il certo di un rapporto organico con il partito al governo per avventurarsi verso l’incerto di un nuovo soggetto di sinistra. La quale sinistra può attendere.

*deputato Pd

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