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L’affaire Renzi e la gabbia del Rosatellum

Giuseppe Conte, nel video alle spalle Matteo Renzi foto LaPresseGiuseppe Conte, nel video alle spalle Matteo Renzi – foto LaPresse

Commenti Propongo una moratoria, una tregua, a tutti i commentatori e protagonisti delle annose discussioni sul famigerato «campo largo». Francamente, non se ne può più

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 5 ottobre 2024

Propongo una moratoria, una tregua, a tutti i commentatori e protagonisti delle annose discussioni sul famigerato «campo largo» (di cui ora Conte certifica la fine senza che, a dire il vero, nessuno ne abbia mai attestato la nascita). Francamente, non se ne può più. E sono, peraltro, dispute che non servono a nulla anche perché, quando ci saranno le elezioni, gli scenari possibili saranno solo due: o le forze attuali delle (chiamiamole così) non-destre si rivelano tanto irresponsabili, ignominiosamente irresponsabili, da replicare lo stesso scenario di divisione del settembre 2022, regalando un’altra super maggioranza alla destra; o saranno costrette (tutte, nessuna esclusa), se non altro per un minimo istinto di sopravvivenza, a trovare la via – quanto meno – di un accordo tecnico-elettorale.

La coperta è troppo corta: se si vuole giocare la prossima partita elettorale, e non perderla in partenza, tutti sono indispensabili (compresi quel 4-5% di voti centristi e magari anche quel 2-3% della sinistra radicale, di cui nessuno parla, ma che può essere altrettanto decisivo); ma è impossibile pensare che si possa costruire un programma politico che tenga insieme tutto e tutti.

Se ci si inoltra sul terreno di una convergenza programmatica a tutto tondo, allo stato degli atti anche solo un’intesa tra Pd, Avs e M5s sembra molto problematica. D’altra parte, se si pensa che alle elezioni ci si debba presentare solo con coalizioni «omogenee», ci si candida al suicidio. È questa la gabbia di uno psuedo-maggioritario da cui bisogna uscire. Qualche settimana fa, su queste pagine, ho sostenuto che è un errore identificare accordi politici e accordi elettorali; e che ci possono essere accordi programmatici su basi più ristrette e variabili e nello stesso tempo accordi elettorali più ampi e inclusivi (che nel nostro caso sono assolutamente necessari, se si vuole creare una qualche simmetria nel rapporto di forze tra le coalizioni); ho spiegato anche come sarebbe possibile, tecnicamente, «neutralizzare» gli effetti distorsivi del Rosatellum. Si è obiettato che sarebbe un «accrocchio»: forse, ma accordi politicamente inappuntabili e coerenti (oltre che improbabili) avrebbero comunque una base molto più ristretta e sarebbero sconfitti in partenza.

Questa strategia di coordinamento dell’offerta elettorale (da cui tutti avrebbero da guadagnare: è un gioco a somma positiva) sarebbe facilmente giustificabile agli occhi dell’opinione pubblica.

Basterebbe additare ciò che da sempre ha fatto la destra: divisa profondamente, ma sempre prontissima a ricompattarsi nelle urne. Dall’altro lato, da sinistra si potrebbe benissimo rispondere: «Sì, ci sono posizioni diverse tra di noi, stiamo discutendo, su molte cose siamo d’accordo, alcuni sono d’accordo solo su alcune cose, altri su altre cose, possiamo anche litigare ma – cari signori – mettetevi l’animo in pace: quando ci saranno le elezioni, faremo comunque un accordo elettorale. Lo preannunciamo sin da ora, e solennemente, perché sia chiaro che non vogliamo commettere gli stessi errori del 2022…sarebbe proprio da autolesionisti. La legge elettorale attuale è obbrobriosa, non la si è voluta cambiare, ma ora si gioca con queste regole, e noi non vogliamo regalare alla destra una super-maggioranza in Parlamento (che non ha un vero riscontro tra gli elettori)».

Non distinguere il piano degli accordi politici da quello dei futuri accordi elettorali sta complicando le cose e non ha permesso di gestire adeguatamente, ad esempio, l’affaire Renzi. Di fronte alla clamorosa giravolta di Renzi, il Pd avrebbe potuto e dovuto dire: «Caro Renzi, vuoi tornare nel centrosinistra? Bene, ci fa piacere, ma capirai tu per primo che non è facile dimenticare tutto quello che ci ha diviso in questi anni. Cominciamo a discutere, quando poi si avvicineranno le elezioni vedremo che tipo di collaborazione instaurare». E invece si è dato l’impressione di voler aggiungere subito un altro posto a tavola, e un posto d’onore, senza nemmeno fare attendere almeno un po’ in anticamera questo nuovo ospite, inatteso, un po’ maleducato e piuttosto invadente.

Questa situazione è evidentemente imbarazzante per Conte e il M5s (anche – va aggiunto – per il difficile momento interno).

Va pur ricordato che, nel 2018, tre milioni di elettori fuggirono dal Pd renziano, per approdare al M5s. E Renzi ha una straordinaria capacità di essere repulsivo e divisivo. Anche tra l’attuale elettorato del Pd. Una certa cautela, anche da parte del Pd, sarebbe stata auspicabile. E invece si è regalato a Renzi una ribalta che forse neppure lui si aspettava. Conte, in un’intervista al Corriere, ha definito Renzi una «tigre di carta». Dal contesto si deduce però che a Conte forse sfugge il senso originario di questa gloriosa espressione maoista: dal dizionario De Mauro, «nemico solo apparentemente temibile». Ma ha ragione Conte, paradossalmente, forse suo malgrado, a definire Renzi così! E allora perché fare dell’affaire Renzi l’alfa e l’omega delle possibili alleanze? Perché ingigantire le mefistofeliche capacità manovriere del leader di un partito del 2%, che – con tutta evidenza – ha un solo, legittimo problema, quello di sopravvivere?

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