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Bernard Boutet de Monvel, il sofisticato che sedusse il maharaja

Bernard Boutet de Monvel, il sofisticato che sedusse il maharajaBernard Boutet de Monvel, Ritratto del Maharaja di Indore, seconda versione, 1934 ca.

Riscoperte nell’arte Figlio d’arte, ricco, dandy, adorato dalla upper-class americana, retrospettivo nei folli anni venti, Bernard Boutet de Monvel mise il suo tratto lucido e asciutto al servizio del principe di Indore

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 18 febbraio 2024

Nel 1912 uno dei più famosi sarti parigini del momento, Jacques Doucet, vendette tutto il contenuto della sua casa in rue Spontini in un’asta che fruttò milioni di franchi. La sua era una delle più sofisticate collezioni di arte francese del Settecento, composta di mobili, porcellane, bronzi, magnifici disegni, e fu rimpiazzata in pochi anni da esempi eccellenti del Modernismo. Nel nuovo studio a Neully sur Seine Doucet ai capolavori dell’ebanisteria di epoca Luigi XVI subentrarono le lacche e le cromature di Pierre Legrain e di Eileen Grey, mentre i fogli di Watteau e di Hubert Robert vennero rimpiazzati da tele dei pittori dell’avanguardia, ma non tele qualsiasi: su una parete, sopra un sofà di ebano e avorio di Marcel Coard, trovò posto la Charmeuse de Serpent del Doganiere Rousseau e sul pianerottolo della scala di acciaio Les Demoiselles d’Avignon di Picasso poteva essere guardato a giusta distanza.

Quell’interno sensazionale sedusse nel 1929 un giovane maharaja poco più che ventenne che, dopo essere stato ricevuto, scrisse a Doucet con gratitudine per avergli regalato «fra le ore migliori spese nel continente». Yeshwant Rao II Holkar, quattordicesimo maharaja di Indore dall’età di diciassette anni, si fece costruire una casa con un interno modernista nel cuore profondo dell’India, il palazzo di Manik Bagh, disegnata da Eckart Muthesius e arredata con mobili realizzati in Europa da campioni del nuovo stile come Hans Luckardt, Marcel Breuer, Le Corbusier, Emile-Jacques Ruhlmann, Jean Puiforcat. Curiosamente, quando si trattò di far eseguire il proprio ritratto e quello della moglie, scelse un pittore che apparentemente non aveva molto a che fare con l’avanguardia ma rappresentava il gusto più aristocratico del momento. Bernard Boutet de Monvel (1881-1949) era quanto di più socialmente sofisticato, in un senso borghese e tradizionale, si potesse immaginare negli anni venti e trenta del Novecento.

Autoritratto, 1932

Figlio d’arte, ricco, elegante fino al dandysmo, adorato dalla upper-class americana, illustratore di moda, arredatore, persino bello ma non dannato. Aveva iniziato sulla scia paterna (il padre Marcel Boutet de Monvel aveva ottenuto un successo mondiale nel 1896 con le sue tavole di Jeanne d’Arc tradotto in varie lingue) con illustrazioni elegantissime della vita mondana parigina, una serie di hyppomobiles, in cui dame e gentiluomini proustiani caracollavano, fra il Bois de Boulogne e i lastricati di Parigi, nei loro equipaggi tirati da coppie di cavalli con guidatori in tuba e marsina. Fra il 1911 e il 1914 fu l’illustratore ufficiale per il «Journal des Dames et des Modes» diretto da Paul Poiret e Tom Antongini, poi partì per la guerra dalla quale tornò portando con sé qualche bella veduta del Marocco. A quel punto la sua reputazione era consolidata e all’attività di illustratore alternò quella di ritrattista, con lo stesso tratto lucido e asciutto con cui continuava a ritagliare le sagome di manichini all’ultima moda sulle pagine di «Vogue» e di «Harper’s Bazaar».

Le effigi del maharaja e della moglie eseguite nel 1929 in due tele destinate a Manik Bagh riflettono la vita della giovane coppia in Occidente: lui in smoking, lei in abito da sera argenteo, così come li ritraggono le fotografie dell’epoca durante le loro escursioni fuori dal loro regno. Quattro anni dopo, però, i due richiesero a Boutet delle immagini ufficiali e in quella del maharaja il pittore raggiunse uno dei suoi apici componendo una piramide bianca interrotta alla base da un drappo bruno dorato e sul vertice dallo sguardo vagamente desolato del protagonista – lo stesso che compare in alcune sue fotografie scattate all’atto dell’accessione al trono paterno. La tela venne esposta a New York nel 1934 ed ebbe un successo tanto clamoroso da suggerire al pittore di farne una replica da poter portare nelle mostre future.

Quando nel 2016 andò all’asta a Parigi l’intero contenuto dello studio di Boutet quella seconda immagine del candido maharaja ottenne il risultato più alto della serata, seguita dall’autoritratto dell’artista impeccabilmente abbigliato che rivolge lo sguardo glauco all’osservatore, sullo sfondo di place Vendôme – un’epitome dell’eleganza francese quando diventa talmente sussiegosa da risultare quasi indisponente. D’altro canto quell’autoritratto serviva da biglietto da visita per una mostra a New York allestita per clienti che si chiamavano Vanderbilt, Payne-Whitney, Astor, e che cercavano l’ennesima voga europea per asserire il loro grado sociale e la loro self-consciousness.

Il numero di ritratti di Boutet è senza fine e può essere diviso in due gruppi, quelli di coloro che pagavano e quelli dei familiari – che in un certo senso sono i migliori. In cima a questi ultimi ci sono quelli della figlia e soprattutto della moglie, la cilena Delfina Edwards Bello, con un’attenzione quasi maniacale ai dettagli dell’abbigliamento che derivano non solo dagli anni spesi dal pittore a disegnare per riviste di moda ma anche dall’osservazione attenta di certi ritratti del Rinascimento studiati nei viaggi in Europa. Per raggiungere quel grado di rappresentazione nitida in cui il soggetto è privo di emozioni ma ciò che lo riveste parla più dello sguardo, Boutet sembra essersi ispirato a certe teste del Pollaiolo, di Pisanello, specialmente quando sceglie di raffigurare il solo profilo. Apparentemente decorativi, fino a rischiare di essere considerati futili, i suoi medaglioni di teste vennero celebrati in una mostra alla galleria Knoedler di New York intitolata Profiles: era il 1947, due anni prima della morte di Boutet in un disastro aereo durante uno dei tanti viaggi fra Parigi e l’America.

La chiarezza di quei lineamenti non nasconde significati molto profondi ma rivela una tecnica elegante e paziente: le varie teste della moglie Delfina che andarono all’asta nel 2016 sembrano quasi un esercizio accademico, il compito di un bravo studente, ma i copricapi con cui la signora dall’elegante naso aquilino è addobbata sono pezzi di bravura assoluta, descritti piuma per piuma come un miniatore del Quattrocento. E non è un tocco puramente ornamentale, da semplice illustratore. È piuttosto la narrazione di una storia, come avrebbe fatto un biografo che sa poco del proprio soggetto e compensa descrivendo ciò che lo circonda, dando significato quasi letterario a quei volti che di per sé sarebbero rimasti una semplice fotografia ripassata a matita.

Nell’asta del 2016 accanto a molti ritratti andarono all’incanto anche tutti gli arredi disegnati o collezionati da Boutet: il suo era un interno parigino elegante fino alla retorica, come la casa che si fece disegnare a Malibu da Maurice Fatio. Ma in vendita andarono anche decine di disegni di ogni tipo e alcuni fra i suoi quadri più intimi, paesaggi giovanili e qualche visione del Marocco e dell’Algeria che consentono di poterlo considerare come uno degli ultimi pittori orientalisti francesi della vecchia scuola.

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