Segui tutti gli aggiornamenti dalla Sea-Watch 3 del nostro inviato Giansandro Merli

 

La puzza di benzina non si lava con l’acqua. È ovunque nel piano basso della Sea-Watch 3 dopo il salvataggio concluso ieri mattina alle 8.30 locali (le 9.30 italiane). Centodue persone sono state trovate in mezzo al mare, a 31 miglia nautiche dalle coste libiche. Erano partite la notte precedente intorno alle 2, col buio rischiarato dalla luna piena e un mare piatto come una macchia d’olio.

Per le squadre di soccorso non c’è stato tempo di pensare. Alle 5.40 dalle radioline arriva la comunicazione che i migranti in pericolo sono a meno di 5 miglia. Undici minuti dopo i due Rhib (Rigid Hull Inflatable Boat, i gommoni usati per i salvataggi) sono calati in acqua da babordo e tribordo. Decine di occhi li puntano dall’alto, in silenzio. Il movimento ha svegliato le 45 persone soccorse venerdì. Stavolta osservano la stessa scena dal lato opposto, come in uno specchio. Indicano la barca in difficoltà e alzano il pollice per incoraggiare i soccorritori.

LE DUE SQUADRE CONTANO un membro in più del giorno precedente. Lo ha chiesto Antonin Richard, che guida il secondo Rhib. Richard ha 28 anni e una grande esperienza: negli ultimi cinque anni ha partecipato a molte missioni umanitarie nel Mediterraneo con diverse Ong, da Sos Mediterranée a Medici Senza Frontiere e Sea Watch. Prima di vestirsi ha puntato l’imbarcazione dei migranti con il binocolo e notato una forma strana.

Quando i soccorritori ruotano intorno al gommone grigio scuro in maniera sincronica per avere una panoramica a 360°, le persone si alzano in piedi, esultano, gridano. C’è felicità, ma è troppa. «C’è puzza di benzina, stiamo attenti», dice subito Richard. La benzina si versa dalle taniche sul fondo dei gommoni. Evaporando viene inalata e fa entrare in stato confusionale.
Delle sei camere d’aria che tengono a galla il mezzo una è sicuramente sgonfia e il peso pende da un lato. Anche la prua è concava. Potrebbe essere il sintomo che, a poche ore dalla partenza, il fondo di plastica rinforzato con assi di legno è già rotto. «Prendiamo il canotto», dice Richard. È una delle tante dotazioni di sicurezza della Sea-Watch 3: sette tipi diversi di giubbotti di salvataggio; due grandi tubi di plastica con maniglie laterali legati insieme per evitare che ruotino; zattere di gomma; gonfiabili che al contatto con l’acqua si riempiono d’aria.

DA TERRA SFUGGE la complessità delle operazioni di soccorso. Lanciare e ritirare i Rhib mentre la nave è in movimento. Far indossare correttamente i giubbotti di salvataggio evitando che la gente si sbilanci. Trasbordare le persone per due volte con il mare che non smette di muoversi. Durante le operazioni capita di trovare individui privi di sensi oppure in acqua da molto tempo, in ipotermia. Ognuna delle quattro fasi del soccorso (localizzazione, identificazione del mezzo, stabilizzazione, trasferimento delle persone) ha decine di dettagli e procedure che tentano l’impossibile: anticipare gli imprevisti.

 

Salvataggio in corso della Sea-Watch3 nel Mediterraneo, foto di SeleneMagnolia

 

«UOMO IN MARE», il grido è improvviso. Dal lato sgonfio cadono una, due, tre, quattro, cinque, sei persone. Istintivamente andresti a prenderle subito, ma è proprio quello che bisogna evitare. La cosa più importante è che indossino il giubbotto di salvataggio. Recuperare qualcuno potrebbe scatenare una pericolosa reazione a catena con gli altri che si tuffano sperando di salire prima sul Rhib. I sei si arrampicano sul gommone aiutati dagli altri.

CALA IL SILENZIO. Duecento occhi sbarrati fissano una macchia all’orizzonte. Noi sappiamo cos’è per via delle radioline. Loro lo sanno e basta. La motovedetta P 300, in mano ai libici ma fabbricata in Italia, si avvicina a tutto gas entrando nella zona di ricerca e soccorso maltese. Dal ponte della Sea-Watch 3 comunicano che è in corso un evento Sar, di lasciare spazio di manovra. I libici non si oppongono. Si avvicinano, controllano, scattano foto. Intanto il trasbordo procede. I primi a salire sul Rhib sono quattro donne e quattro bebè, poi i bambini. Uno ha un pullover rosso sopra una camicia a quadretti bianchi e celesti, vestito elegante come per le grandi occasioni. Sembra solo e ha lo sguardo disorientato.

QUANDO TUTTI i naufraghi sono al sicuro sulla nave i soccorritori tornano al gommone. Con una bomboletta verde scrivono sui fianchi «Sw3 27/02/202». Affondano il motore e tagliano la gomma per evitare che i trafficanti tentino di sistemare il mezzo e riutilizzarlo, aumentando il rischio di naufragio. Dalla camera d’aria viene fuori una ventata di benzina che rimarrà nel naso per ore.

Adesso su due dei tre ponti della Sea-Watch 3 ci sono 147 naufraghi. I nuovi arrivati si mettono in fila per un tè caldo e due barrette energetiche. Vengono da diversi paesi dell’Africa. Si parla molto francese. Il personale medico fa il triage. Al piano in alto le persone soccorse il giorno precedente riposano o chiacchierano. Molte leggono un libro. A un tratto iniziano a cantare e ballare. Questa felicità non è chimica. Alzano un coro: «Sea-Watch 3, Sea-Watch 3». Sono vivi.

VERSO MEZZOGIORNO dal ponte di comando arriva una nuova chiamata alle squadre di soccorso. Si vestono in pochi minuti, ma è già tardi: sulla scena c’è la motovedetta libica Fezzan. Ha intercettato una o due barche. Venerdì aveva riportato a Tripoli 151 persone. Dalla nave i naufraghi osservano preoccupati. «La prima volta che ho provato a superare il mare mi hanno catturato, portato indietro e messo in prigione per un mese, a pane e acqua», dice Adama, della Costa d’Avorio. «Tranquilli – dice una ragazza di Sea-Watch – qui non possono venire».