Dunque, il ministro Cingolani ha deciso di continuare a darci ragione nell’averlo definito il ministro della «finzione ecologica». L’attacco all’obiettivo europeo di fermare la produzione di auto diesel e benzina nel 2035 – data che andrebbe anticipata al 2028 per stare in linea con l’obiettivo degli Accordi di Parigi – è segno della funzione di retroguardia se non di vera e propria resistenza fossile del suo ministero. L’affermazione secondo la quale il passaggio alla mobilità elettrica avrebbe senso solo quando la quota rinnovabile di elettricità sarà al 75 per cento – col ritmo attuale, tra circa un secolo – è un falso ideologico certificabile da numerosi studi.

Infatti, già oggi, anche tenendo conto del ciclo di vita, il passaggio all’elettrico è vantaggioso in termini di emissioni di gas serra. E, essendo alcune componenti come il litio abbastanza preziose, l’industria per il riciclo ha già iniziato in Europa con un primo impianto. E noi italiani potremmo benissimo seguire: avendo poche risorse abbiamo una grande tradizione nel recupero e riciclo in ambito industriale. Rimane da decifrare se Cingolani mente sapendo di mentire o, più semplicemente, è ignorante e presuntuoso.

La proposta di Elettricità Futura, organizzazione confindustriale che rappresenta il 70 per cento del settore elettrico, di investire 85 miliardi per installare 60 GW di rinnovabili (eolico e solare) in tre anni, è stata liquidata dal ministro con qualche battuta. Invece, ci si sarebbe aspettato l’apertura di un tavolo tecnico e l’individuazione dei nodi critici e delle possibili soluzioni per mettere in cantiere questa proposta che porterebbe, in una fase economica difficilissima, a un aumento sensibile dell’occupazione. Invece nulla di tutto ciò: ci sono stati degli incontri ma nessun documento di analisi tecnica.

Il Cesi, centro di ricerca sull’energia, ha fatto una analisi interessante che identifica in almeno 40 GW di rinnovabili e 5,8 GW di accumuli per la rete un obiettivo possibile. Al momento sono in fase autorizzativa 2,7 GW di accumuli – importanti per assorbire elettricità nelle ore in cui se ne produce di più e rilasciarle nelle ore senza sole e vento – e, dunque, si tratterebbe di raddoppiare questi investimenti e anche accelerare lo sviluppo delle reti elettriche.

Come mai in un Paese che dice di voler fare la transizione ecologica una parte importante dell’industria viene liquidata dal ministro come «lobby rinnovabilista»? Questa espressione è stata utilizzata in passato nella campagna contro le rinnovabili da parte del settore petrolifero quando, grazie all’aumento in pochi anni di energia solare e eolica, il settore del gas perse quote di mercato. All’epoca l’ad di Eni Scaroni attaccava dicendo che «investire in rinnovabili è da ubriachi». E, invece, è esattamente quello che dovrebbe avvenire: espandere la quota di rinnovabili adeguando la rete ed elettrificando settori come i trasporti con l’obiettivo di ridurre progressivamente la quota di gas, petrolio oltre che di carbone. E, invece, si nominano commissari straordinari per i rigassificatori ma non per le rinnovabili per accelerare le autorizzazioni.

La guerra in Ucraina e la necessità di sostituire le importazioni di gas russo sarebbero l’occasione giusta per accelerare la transizione ecologica, ma non è questa l’intenzione di Cingolani e del governo. L’obiettivo è lo stesso di quello dell’Eni: sostituire quanto più possibile il gas russo con altri fornitori prevalentemente dall’Africa per mantenere le quote di mercato dell’azienda petrolifera. E perché mai? Perché Eni, con un piano industriale totalmente inadeguato a affrontare la crisi climatica, investe solo marginalmente in rinnovabili. Dunque, una accelerazione per ridurre i consumi di gas, petrolio e carbone – che dovrebbe essere il principale obiettivo di un ministero della transizione ecologica – toglierebbe mercato all’azienda. Peraltro, i tempi, un paio d’anni, per portare altro gas non sono molto diversi dai tempi tecnici di installazione delle rinnovabili (se liberate dall’eccesso di burocrazia a ogni livello).

Peraltro, c’è un legame tra gli interessi petroliferi e la guerra della Russia: questo Paese è parte dominante di quell’oligopolio petrolifero e del gas che si oppone al cambiamento verso le rinnovabili. Si tratta di passare da un mercato riservato a pochi e grandi, con logiche di cartello, a un mercato molto competitivo con aziende di ogni dimensione e con elevato tasso di innovazione. Il settore petrolifero e del gas è l’ostacolo principale al cambiamento sia nel mondo – dove guerre sono già state causate e finanziate da petrolio e gas – che in Paesi come l’Italia, dove Eni continua a mantenere un ruolo dominante nelle scelte di governo.

Un rapporto di pochi anni fa dell’agenzia internazionale sulle fonti rinnovabili Irena analizzava come cambierà la geopolitica dell’energia dopo la transizione energetica e, tra i Paesi in maggiori difficoltà, si identificava proprio la Russia, e a ben vedere. Oltre a petrolio e gas, la Russia è esportatrice anche di carbone – la fonte in assoluto più sporca – e controlla anche oltre un terzo del mercato globale del combustibile nucleare. Una transizione verso le fonti rinnovabili globalmente spiazzerebbe la posizione economica della Russia, la cui economia è fortemente dipendente dalle esportazioni delle fonti fossili.

Quella della cooperazione economica nel campo delle rinnovabili, tra Usa ed Europa da una parte e Cina dall’altra è uno dei pochi assi su cui costruire un dialogo e una politica che renda la pace più conveniente della guerra. Ne abbiamo già una da fare contro la crisi climatica e per vincerla bisogna che le principali economie spingano nella stessa direzione e aiutino i Paesi più in difficoltà a seguirli. In questo senso, le parole del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, «se agiamo insieme, la trasformazione verso le rinnovabili sarebbe il progetto di pace del 21mo secolo» colgono nel segno.

*Direttore Greenpeace Italia