«Benvenuti all’inferno». Bakhmut è sempre più sola
Il limite ignoto In città si sente il frastuono dell’offensiva, mentre scema quello della resistenza ucraina
Il limite ignoto In città si sente il frastuono dell’offensiva, mentre scema quello della resistenza ucraina
Welcome to hell, benvenuti all’inferno si legge su un muro di Bakhmut a poca distanza dalla piazza centrale. A terra un cane morto, ancora integro. Nell’aria i sibili dei colpi, dei quali si sente tutta la traiettoria dal lancio al sibilo fino allo scoppio. A ogni grande incrocio si fa la conta delle colonne di fumo, si prova a indovinare la direzione di tiro ma il vento forte confonde tutto, soprattutto gli odori. Il naso si riempie della puzza di bruciato e di polvere da sparo che neanche le sigarette riescono a coprire.
SI COMBATTE vicino al fiume, i piloni del ponte sono ancora ucraini ma dall’altro lato il fuoco è incessante. L’ultima volta che eravamo entrati, circa una settimana fa, avevamo raccontato del costante fuoco di sbarramento dei difensori. Ieri mattina quasi nulla, per ore i russi hanno martellato con diversi tipi di munizioni inclusi Grad, riconoscibili dal suono a scroscio, e bombe a grappolo, che fanno scricchiolare l’esistente frantumando vetri, lamiere, macchine e bucando qualsiasi cosa incontrino. Il movimento dei mezzi fino al primo pomeriggio è quasi inesistente, due carri armati e qualche pick-up lanciato a tutta velocità. Nessuno riesce a darci informazioni sulla zona del mercato e piazza Libertà, dove prima c’era la sede dell’amministrazione comunale.
«Perché vuoi sapere dov’è l’amministrazione?» chiede sospettoso un poliziotto ci circa vent’anni dopo essere stato abbastanza disponibile. «Volevo sapere dei paramedici del centro di stabilizzazione», rispondo. «Non sono più lì». Il ragazzo è nato e cresciuto a Soledar, tra lui e il collega che gli sta accanto e dondola il pesante fucile nervosamente non fanno 40 anni.
Sonja è ancora al centro dell’invincibilità dove però i civili rimasti sono pochissimi. In compenso la percentuale di persone in difficoltà sembra aumentata significativamente. Un uomo che parrebbe ubriaco è seduto su un ceppo di albero tagliato per fare legna da ardere. Con un gomito appoggiato su un ginocchio e l’altro braccio cadente resta immobile nonostante le bombe. Il cane ai suoi piedi non lo abbandona, però quando le esplosioni sono troppo forti si alza, fa un giro intorno alla sedia e ritorna a sdraiarsi nella posizione iniziale. «Come sta il nipotino?». «Ooooh» sorride Sonja, «è così carino, lo sento tutto i giorni». Ride nervosamente, trova comunque il tempo di offrirci un caffè americano e di scambiare quattro chiacchiere ma è stanca. Intorno agli occhi le sono venute delle macchioline rosse che contrastano nettamente con i capelli biondi e gli occhi chiari. «Volevano che me ne andassi» dice a bassa voce, quasi sibilando, «ma io voglio stare qui, i ragazzi hanno bisogno di me». Neanche lei, pur nella sua dolcezza esausta, sembra stare più tanto bene.
FACCIAMO un primo tentativo di avvicinamento al centro cittadino con la macchina. La strada che avevamo scelto termina in un fumo biancastro ancora troppo vicino al suolo, un’esplosione recente. Torniamo indietro e facciamo il giro da nord. I cavi dell’alta tensione penzolanti sbattono sul tettuccio dell’auto e alla guida bisogna scegliere costantemente tra un detrito e una buca; comunque a ogni sobbalzo speri che la gomma non si buchi. Nei pressi della strada che scende fino alla piazza ci ritroviamo circondati da nuove colonne di fumo e anche la zona industriale è in fiamme. Torniamo indietro e ci avviamo a piedi. All’angolo un murales con il comandante delle forze armate ucraine, Valerj Zaluzhny, fa il simbolo della vittoria con le dita al piano terra di un palazzo semi-distrutto. Camminiamo rasenti ai muri sui vetri rotti delle finestre, il ghiaccio scivoloso e le macerie e ci accucciamo ogni volta che un fischio spezza la monotonia delle esplosioni.
A POCA DISTANZA si vede un militare che gira l’angolo, lo seguiamo. «Che fate? Correte!» dice lui. Ci fa segno di seguirlo verso un palazzo a poca distanza. Lì, dalle scale delle cantine, esce un’intera unità di fanti ucraini armi alla mano. «Di dove siete?» chiedono, e rispondiamo che siamo italiani. «Ah… Berlusconi». «Niet!» obiettiamo. Il comandante non ci trova simpatici e le dichiarazioni di Berlusconi, che chissà dove ha trovato il tempo di vedere, accentuano l’insofferenza per la nostra presenza. Un soldato canuto e magrissimo è buttato come un sacco, visto che non alza la testa mi accuccio per salutarlo. «Va bene, sto bene, tutto bene» dice e ride come un folle alzando le sue quattr’ossa.
I MILITARI stanno smobilitando, arrivano a turno un’utilitaria e un Humvee (una specie di Hummer con una mitragliatrice pesante sul tetto) dove la truppa carica tutto ciò che c’è in cantina: zaini, sacchi a pelo, sacchi di patate, le casse d’acqua, un lanciagranate, diversi attrezzi da lavoro e, per ultima, l’antenna di Starlink. Non ci sarà rotazione, quella base temporanea sta per essere abbandonata. Un altro dei soldati, forse il più giovane, a tratti sembra uscito di senno e altre volte solo inquieto. È ovvio che la macchina fotografica lo galvanizza, insulta i russi, simula spari al cielo, accenna dei balletti, ma quando si ferma un attimo la mano gli trema come una foglia. Il comandante lo richiama, è ora di andare. «Buona fortuna» dice il giovane soldato con l’unico sorriso sincero che gli è rimasto in quel momento.
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