Beloborodov, da Pietrogrado all’Italia, com’era prima dell’urbanistica fascista
Novecento russo «Andrea Beloborodov Roma e le ville romane», Valore italiano
Novecento russo «Andrea Beloborodov Roma e le ville romane», Valore italiano
Il primo febbraio 1920, attraversando a piedi sul ghiaccio il Golfo di Finlandia, il giovane architetto e pittore Andrej Beloborodov fuggiva da Pietrogrado dopo una breve collaborazione con il governo bolscevico presso l’Ermitage. Si era formato a Pietroburgo come promettente artista, i cui lavori sono esposti presso il palazzo Bobrinskij, il Gabinetto imperiale nel palazzo Anikov, il palazzo del principe Jusupov. La fuga, a parte i difficili rapporti con il nuovo potere sovietico, era motivata dall’aspirazione a vedere l’Italia e visitare Roma, dalla quale era stato tenuto lontano dallo scoppio della Grande guerra, pur avendo ricevuto una borsa di studio dall’Accademia Russa delle Belle Arti.
Alla fuga seguì una lunga peregrinazione, che portò Beloborodov prima a Londra, dove si fermò presso la celebre ballerina Anna Pavlova, poi a Parigi, dove ebbe successo come paesaggista e da dove ogni anno poté recarsi in Italia fino al trasferimento definitivo nel 1934. Il destino portò così a compimento l’aspirazione del pittore a ricongiungersi con quell’ideale palladiano di armonia e misura, che da sempre egli aveva eletto a suo ideale. Giorgio de Chirico nel recensire una mostra romana di Beloborodov, scrisse di lui che era tornato «nel suo mondo. Un mondo profondamente mediterraneo». Esce ora un volume a lui dedicato, a cura di Andrej Shishkin e Olga Strada Andrea Beloborodov Roma e le ville romane (Valore Italiano editore, pp. 127, euro 38,00) che offre trentasei riproduzioni (presentate in italiano, inglese e francese), lungo un itinerario narrativo commentato dallo scrittore franco-russo Jean Neuvecelle (Dmitrij Ivanov, figlio del celebre poeta simbolista Vjaeslav) ricostruendo lo spirito della Roma di Beloborodov e fornendo allo stesso tempo alcuni tratti specifici dei luoghi descritti e di come si presentassero prima degli sventramenti operati dall’urbanistica fascista (ad esempio, la demolizione della Spina di Borgo): dall’Obelisco di San Pietro al Foro Romano, dal Teatro Marcello alle ville di Caprarola e Bagnaia.
In questo, come in molti altri cicli pittorici (l’artista ne dedicò a Venezia, Firenze, Pienza, Montepulciano, Napoli, e altre città), il vedutismo di Beloborodov tende a svilupparsi in una visione personale e originale, una sorte di «metafisica palladiana», come scrisse de Chirico. Paesaggi privi della presenza umana, sembrano caratterizzarsi per trasparenza e silente leggerezza.
Nel commentare un’altra opera di Beloborodov, La Grande Isola, Corrado Alvaro vi riconobbe «un universo creato dagli uomini, esaurite tutte le combinazioni, messe in un sacco, rimescolato, rovesciato, simile a un gigantesco gioco di dadi su cui sia puntato l’interrogativo della civiltà e la posta dell’avvenire». In Francia Beloborodoff fu apprezzato da molti artisti e scrittori, tanto che Paul Valéry scrisse la prefazione per un’edizione da collezionisti di Le Golfe de Salerne. A Roma Beloborodov tenne una celebrata mostra di vedute della città e dell’Italia, nel novembre 1934, e si legò allo scrittore e filantropo svizzero Maurice Sandoz, suo committente e per il quale progettò la Villa SanA questo sodalizio sono legati gli incontri di Beloborodov con Dalì, Praz e de Chirico. Vivacemente attivo nella vita culturale italiana del tempo, il pittore firmò anche gli scenari del successo cinematografico di Goffredo Alessandrini Noi vivi-Addio Kira (1942), ambientato nella Russia Sovietica e interpretato da Alida Valli e Fosco Giachetti.
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