Nel dicembre del 2016 la famiglia Bellocchio si riunisce al Circolo dell’Unione di Piacenza, come consuetudine, per festeggiare i compleanni dei diversi fratelli, Marco, Piergiorgio, Alberto, le due sorelle, Letizia e Maria Luisa, che abbiamo conosciuto nei film precedenti del regista – Sorelle (2006) e Sorelle mai (2010) – in cui comparivano, come in questa occasione, i suoi figli, Elena e Piergiorgio, e anzi Elena, la più giovane, ne era protagonista.

UN FILM di famiglia dunque Marx può aspettare – ma se lì, in quei lavori nati nei laboratori di cinema a Bobbio, la distanza narrativa esplicitata rendeva i famigliari «personaggi» di un racconto sul tempo e i suoi movimenti impercettibili, stavolta Bellocchio sceglie la «prima persona» entrando in campo per compiere una investigazione su un trauma, e su un vuoto, rispetto ai quali sembra avere messo in atto una rimozione. L’ «immagine mancante» nella foto di gruppo famigliare che prova a ricostruire, seguendone le tracce per più anni (cinque) tra i ricordi collettivi, diversi in ciascuno dei fratelli, e nella propria amnesia è quella di Camillo, il suo gemello, morto suicida nel 1968, l’anno delle rivoluzioni. Marx può aspettare – ricorda il regista – fu la risposta secca che Camillo aveva dato alla sua esaltazione di fronte a quel momento, e ripresa in Gli occhi, la bocca (1981) dal personaggio di Pippo, ispirato a lui (o forse più a se stesso), dà ora il titolo a questo nuovo film che ha presentato ieri (con uscita contemporanea nelle nostre sale) in occasione della sua Palma d’oro alla carriera.

Chi era allora Camillo? Il suo gemello, appunto, nato dopo di lui, rischiando di morire. E quel suo rimanere «indietro» sembrava essere il suo «karma». Messo in ombra dai successi precoci di Marco e dall’autorevolezza intellettuale di Piergiorgio, scrittore, critico letterario, fondatore nel 1962 dei Quaderni Piacentini, faticava a trovare il suo posto in famiglia. Competere era impossibile, lo spiega bene Alberto, l’altro fratello, che aveva scelto la strada del sindacato, mentre per le sorelle la questione in questo universo maschile neppure si poneva.

LUI, CAMILLO, era insicuro, alla ricerca di sé: lo studio, l’ ‘impegno non lo interessavano – almeno in apparenza – preferiva divertirsi con gli amici, e fare battute un po’ su tutto. Si era iscritto all’Isef – l’Istituto superiore di educazione fisica – quasi a marcare la distanza dai fratelli. E poi? Fino a quel 27 dicembre, quando lo trovano morto nella sua palestra casalinga, nessuno si aspettava da lui un gesto simile. La madre non voleva credere al suicidio – e loro alla fine l’hanno persino assecondata nella sua convinzione che era stato un incidente. Gli altri avevano capito il suo malessere? Aveva capito lui, Marco, il suo gemello – seppure diversissimo pure fisicamente – cosa celava Camillo dietro all’immagine che esibiva?

Nelle conversazioni che coinvolgono anche la sorella della fidanzata di Camillo, il regista segue diverse piste, e alla versione della memoria altrui oppone stupore, sorpresa, quasi fosse stato escluso da informazioni importanti: «Davvero non ricordi?» è la frase che ricorre davanti alla sua reazione. Camillo aveva lasciato un biglietto, Marco dice di non averlo mai saputo: l’ennesimo rimosso?

Pian piano la figura di Camillo, e il suo mistero, si fanno narrazione della storia famigliare, e di un’epoca italiana, i genitori, la guerra, la fuga dalle bombe, il ritorno a casa. La madre ossessionata dal cattolicesimo e le sue angosce mai espresse di fronte ai figli più fragili: Maria Luisa, nata muta, il cui umorismo oggi fa da controcanto all’esigenza di razionalizzare dei fratelli, e il maggiore, Paolo, con disturbi psichici, quella follia che ricorre nel cinema di Bellocchio proprio come la religione. La madre aveva voluto che Camillo dormisse con lui, loro ricordano ancora le sue grida in casa con dolore e fatica. Era questo che lo aveva ferito da piccolo?

LE DOMANDE Bellocchio le pone agli altri ma soprattutto a se stesso, e gli interrogativi da Camillo si spostano di nuovo su di lui, dialogano col sentimento di colpa che lo accompagna da allora: è questo il rimosso, è questo che lo spinge a dimenticare? Non avere capito, non avere colto, non avere ascoltato quel fratello per egoismo, per narcisismo, per leggerezza? E se dai figli Bellocchio sembra aspettarsi almeno un rimprovero severo, negli interlocutori esterni alla famiglia, uno psichiatra e un prete, due forme diverse di «confessione» – quest’ultimo è il gesuita Virgilio Fantuzzi, acuto sguardo sul cinema morto nel 2019 – prova a ottenere le suggestioni di nuove prospettive. Fantuzzi lo invita a guardare nel suo cinema, nella sua poetica che è laddove l’artista sposta e riversa ciò che appartiene all’esperienza e al mondo. È tra le sue immagini che quel lessico famigliare ritorna, si interroga, e viene interrogato, fardello portato dentro nella distanza dell’arte. Di questo Marx può aspettare diviene il laboratorio, e la rivelazione al regista e condivisa con gli spettatori scena dopo scena, in un processo lucido di analisi di sé stesso – grazie anche al montaggio puntuale di Francesca Calvelli.

È il senso del suo cinema, che il film mette in scena, coralmente perché da questa coralità deriva, nel dubbio che è quello di un regista capace film dopo film di sorprendere se stesso e la materia del suo fare.