Giornata di passione ieri in Pakistan, e in particolare a Lahore intorno alla residenza dell’ex primo ministro Imran Khan, dove centinaia di sostenitori del Movimento per la giustizia del Pakistan (Pti), il partito di cui è presidente Khan, sono accorsi per impedirne l’ arresto. A convocarli era stato lui stesso, con un tweet in cui esortava a «combattere per la libertà e lo stato di diritto». La polizia, denunciava Khan nel suo videomessaggio, «è fuori ad aspettarmi per arrestarmi. Credono che se Imran Khan viene messo in prigione, la nazione si addormenterà. Dovete dimostrare che si sbagliano (…) Dio mi ha dato tutto e io sto combattendo questa battaglia per voi (…) Ma se mi accade qualcosa, se venissi imprigionato o ucciso, allora dovrete mostrare che questa nazione continuerà a lottare. Non dovrete mai accettare la tirannia di questi ladri, specialmente dell’uomo che prende le decisioni per il Paese».

Ingenti forze anche paramilitari hanno affrontato con gas lacrimogeni e idranti la folla, che ha risposto con un fitto lancio di pietre. Feriti si registrano da entrambe le parti.
L’ex premier, coinvolto in diversi procedimenti giudiziari, sostiene che l’obiettivo è eliminarlo dalla prossima competizione elettorale. Quattro i mandati d’arresto a suo carico, tra cui uno per mancata comparizione nel processo sul “caso Toshakhana”, riguardante l’uso improrio dei doni ricevuti da dignitari stranieri e «false dichiarazioni» per le quali è stato interdetto dalle cariche pubbliche per cinque anni. In seguito ai violenti scontri scoppiati durante le proteste contro questo procedimento Khan è stato accusato anche di «terrorismo» e «tentato omicidio».