Visioni

Bassam Abou Diab: «La mia danza come un respiro per sopravvivere alla violenza»

Bassam Abou Diab: «La mia danza come un respiro per sopravvivere alla violenza»Bassam Abou Diab in «Under the Flesh» – foto di D. Matvejev

Intervista Il coreografo libanese racconta la sua ricerca artistica tra tradizione e contemporaneità, si esibirà stasera e domani a Roma al Teatro Biblioteca Quarticciolo

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 3 febbraio 2023

«Pongo il corpo di fronte ai problemi come se fosse un’opinione, un linguaggio» ci racconta Bassam Abou Diab quando lo incontriamo al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma. Qui è in residenza e si esibirà stasera e domani con due spettacoli nella stagione Orbita, Pina, My Love e Under the Flesh. Un’opportunità per conoscere la ricerca artistica del danzatore e coreografo libanese, che vive e lavora tutt’ora a Beirut nonostante la difficile fase che il Paese sta attraversando. Ed è proprio l’eco della guerra e della violenza che non dà tregua al Medio Oriente ad essere l’ispirazione per il lavoro di Bassam, per «sopravvivere attraverso il movimento e la danza», con uno stile sincretico tra tradizione e contemporaneità.

Come hai capito che la danza poteva essere un modo per esplorare l’esperienza della guerra?

Quando l’essere umano vive situazioni troppo pesanti deve trovare dei modi per alleggerirsi, altrimenti diventerebbe pazzo. La danza è come imparare a respirare all’interno di quelle condizioni. Quando si è vivi per caso si prova a negare la situazione, allora danzare farà parte della negazione ma allo stesso tempo è un modo per esprimerla, per dire che in questa parte del mondo sta accadendo tutto ciò. Cerco di capire come il corpo trovi soluzioni di fronte a esperienze estreme come la tortura; mi interessa la qualità fisica dei meccanismi di difesa. È qualcosa di molto tecnico ma anche di psicologico, è ciò che avviene a livello inconscio per sopravvivere.

Come ti influenzano le danze tradizionali della tua area geografica?

Le danze e i rituali tradizionali sono molto legati all’ambiente, al clima, alla società. Si tratta di una realtà autentica in una civiltà antica come quella mediorientale. È un linguaggio specifico per i corpi, non si tratta di inventare un movimento ma di scoprirlo. Lo possiedo da sempre, me lo hanno trasmesso le generazioni precedenti e la connessione con i luoghi, che mi fa muovere in un certo modo rendendomi più onesto.

I tuoi spettacoli sono spesso scanditi dalla musica dal vivo, che ruolo ha?

Varia a seconda di cosa mi chiedo nelle singole performance, ma in generale trovo che le persone siano connesse attualmente con suoni forti e violenti perché viviamo in un posto non molto sicuro. Forse se vivessimo nel silenzio avremmo troppo spazio per pensare e soffrire, il suono invece ci permette di affrontare questo caos. Nel mio lavoro cerco un incontro tra musica tradizionale e possibilità tecnologiche, l’apporto poi del musicista che è con me nelle diverse occasioni è fondamentale.

La situazione attuale del Libano è molto difficile, in tanti vanno via, come è essere un coreografo in quel territorio?

Per me si tratta del Libano ma non solo, preferisco riferirmi a un’area culturale che comprende la Siria, la Palestina e altri luoghi. I confini sono una questione politica creata per la colonizzazione, noi ci riconosciamo in quanto abbiamo gli stessi problemi tra cui la guerra, la crisi economica, la questione religiosa. Beirut è come un luogo di transito per tante persone, non è una città in cui la cultura viene creata ma dove passa. Per questa ragione è difficile creare qualcosa di duraturo lì, ma nonostante tutto ci sono molti artisti come me che provano a sopravvivere in qualche modo. È una vita difficile e lo è sempre più, non abbiamo posti o studios in cui lavorare e la maggior parte dei teatri con la crisi ha chiuso. Ce n’erano così tanti negli anni ’60 e ’70, poi dopo la guerra civile nei ’90 avevano ricominciato ad aprire ma con la crisi economica c’è stato un crollo. Io continuo il mio lavoro anche perché è l’unica cosa che so e posso fare, cerco di creare un ponte con artisti di altri paesi per dare l’opportunità ai giovani di fare esperienze con workshop di performance contemporanea, visto che le scuole ormai sono monopolizzate da un tipo di teatro e danza molto classico. Al nostro governo non importa nulla dell’arte, c’è un sostegno da parte dell’Europa ma ad interessare è solamente lo spettacolo, il prodotto finito e non il processo. Io credo che la formazione sia invece fondamentale, è il mio modo di essere attivo politicamente: rendere le persone connesse con il proprio corpo per diventare più aperte, consapevoli e meno violente, sperando che saranno un giorno parte del cambiamento.

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