È un Brasile allo sbando, con un presidente, Temer, che nessuno vuole più, una destra in cerca di autore, una sinistra fragile e de-ideologizzata e Lula, il leader politico più amato rinchiuso in prigione, ma ancora più presente sulla scena politica che se parlasse nelle piazze; un Paese che sprofonda nella crisi economica e nell’instabilità sociale, perso nel labirinto in cui è stato spinto in seguito al golpe e da cui non riesce più ad uscire.

Ne abbiamo parlato con Marcelo Barros, monaco benedettino e teologo della liberazione tra i più noti del Paese, in occasione di un dibattito sulla situazione brasiliana, nell’ambito della serie di seminari sull’America latina promossi dalla Fondazione Basso.

Sei stato tra i primi a visitare Lula in carcere. Che impressione ne hai tratto?

Quando Lula è stato eletto presidente, nel 2002, sono stato felice di partecipare al suo insediamento. Per il suo secondo mandato, però, ho lasciato cadere l’invito. Troppe cose mi avevano deluso, dalla mancata realizzazione della riforma agraria a una discutibile politica ambientale. Non sono un suo fan incondizionato. Però dinanzi alla sua ingiusta e illegale detenzione non ho esitato a chiedere di incontrarlo. L’ho trovato saldo e sereno. La cosa più pesante per lui è l’isolamento a cui è costretto, e che non aveva mai sperimentato prima. Mi ha detto di aver bisogno di tenere separata la sua immensa indignazione da qualsiasi sentimento di odio. E di non volere l’indulto. «Voglio che o presentino le prove della mia colpevolezza o mi riconoscano innocente». Mi sono offerto di tornare a trovarlo questo mese, ma lui ha detto: «A giugno non sarò più qui».

Quante probabilità ci sono che Lula possa partecipare alle presidenziali di ottobre?

La logica vorrebbe che venisse scarcerato, perché Lula è ancora più pericoloso in prigione che in libertà. Anche per molti dei suoi avversari il suo arresto è stato un errore. Ma attualmente chi comanda è Moro. Un giudice di primo grado che può commettere qualunque arbitrarietà, fino alla divulgazione di una conversazione, intercettata illegalmente, tra Lula e l’allora presidente Dilma: qualcosa che avrebbe pregiudicato la sua carriera in ogni Paese normale. Non credo che permetteranno a Lula di candidarsi. Ma, di certo, il suo potere di trasferire voti su un altro candidato sarà fondamentale.

E la destra, ancora senza un candidato in grado di aspirare al secondo turno, a parte l’impresentabile Jair Bolsonaro, come si organizzerà?

Bolsonaro non lo vuole nessuno. È stato capace di dire a una deputata: «Non ti stupro perché non te lo meriti». Uno che propone il bombardamento come soluzione per i problemi delle favelas. Alla fine la destra si riunirà attorno a un candidato socialdemocratico, che sia Geraldo Alckmin o un altro al posto suo. E che al ballottaggio lo scontro sarà tra lui e il candidato progressista indicato da Lula. Quello che vorrei è un cambiamento nei rapporti di forza all’interno del Congresso, oggi dominato da tre potenti lobby: le cosiddette bancadas “BBB” (Boi, Bala e Bíblia), legate agli interessi dell’agribusiness, della sicurezza pubblica e del pentecostalismo. Un Congresso più rappresentativo potrebbe realizzare la tanto attesa riforma politica e spazzare via le illegali misure adottate da Temer, a cominciare da quella che congela per 20 anni le spese sociali.

Si parla spesso sia del rinvio delle elezioni, che la destra non sarebbe in grado di affrontare in questo momento. Che ne pensa?

È difficile che le elezioni possano essere rimandate. Perché una delle caratteristiche di questa guerra a bassa intensità scatenata dalla destra è l’attenzione a salvare le apparenze di legalità. Questo governo sta battendo ogni record di impopolarità. Come si sbarazzeranno di Temer? Con un golpe militare? Non c’è giorno che passa in cui non se ne parli, ma non lo ritengo possibile.

A partire dall’impeachment di Dilma, il popolo brasiliano ha mostrato una profonda apatia. Come si spiega?

I governi di Lula e Dilma sono venuti meno al compito di portare avanti un lavoro di educazione popolare. E allo stesso tempo si è perso anche il lavoro di base realizzato dalla Chiesa della Liberazione, terribilmente repressa sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. L’influenza di papa Francesco è ancora molto limitata. Del resto, quale ricaduta possono avere le sue ripetute denunce del clericalismo, se il clericalismo non è l’abuso ma il sistema stesso? La domenica precedente alle elezioni municipali di due anni fa, nella parrocchia vicino a dove abito, il parroco ha detto nell’omelia che votare per il Pt è peccato. La situazione però comincia lentamente a cambiare. Perché la liberazione è un’esigenza antropologica, che si affaccia con tanta più forza quanto più profonda è l’oppressione.

Il pré-sal (gli enormi giacimenti petroliferi al largo delle coste brasiliane) sembra aver portato più problemi che vantaggi. Ma soprattutto, in tempi di emergenza climatica, perché la lotta dei movimenti si concentra appena contro la privatizzazione della Petrobras, anziché a favore di un nuovo modello energetico?

Lo sciopero dei camionisti dello scorso maggio ha mostrato la fotografia di una società totalmente dipendente dal petrolio. Trasporti, scuole, università, ospedali: tutto bloccato. Il prezzo dello sfruttamento del pré-sal è enorme, eppure, su questo punto, destra e sinistra sono uguali. Siamo ancora lontani dalla consapevolezza che la Madre Terra, l’acqua, le risorse della natura sono una priorità assoluta. Perché sono vita e la vita è prioritaria. Si tratta di un problema di civiltà. Qualcosa però si muove. Nel semi-arido nordestino, per esempio, esistono molte esperienze legate a energie rinnovabili. Piccole anticipazioni del nuovo all’interno di una civiltà vecchia. Passando per il semiarido, del resto, tutto sembra bruciato e senza vita, ma basta che piova una o due volte e si assiste a una rinascita meravigliosa. La vita trova sempre la strada.