«Alla bestialità dell’azione deve corrispondere la bestialità del pensiero (…) appartiene alla condotta di una guerra tale e quale come la polvere da sparo e il piombo». Così scriveva Rosa Luxemburg nel 1915 mentre era in galera, condannata per essersi opposta alla guerra e alle motivazioni giustificatorie dei protagonisti, Germania e Russia in primis, con gli strumenti della critica, tanto kantiana che marxiana. Critica al suo occidente di appartenenza (Germania) per il quale «la sconfitta della Russia e la vittoria della libertà in Europa» (Pfälzische Post, agosto 1914). Critica alla Russia che per bocca del suo Zar proclamava di lottare «con il ferro nella mano, con la croce nel cuore (…) per una giusta causa», per la sua «missione storica».

Toni di una retorica da scontro tra civiltà che ci risuona tristemente familiare. C’era allora in una parte della cultura russa chi tracciava un filo rosso che avrebbe condotto «con necessità storica», da Kant «sino a Krupp e agli Zeppelin» (V. Ern, 1915), così come oggi qualcuno traccia continuità tra un Dostoevskij panslavista e l’imperialismo putiniano.

Ho appena indicato le ascendenze analitiche della critica utilizzata da Rosa Luxemburg, ascendenze imprescindibili della cultura occidentale moderna, essenziali nella demistificazione di un Occidente rappresentato in maniera monodimensionale. La critica, in questa tradizione di pensiero, non ha solo la funzione di svelamento delle proposizioni ideologiche, ma anche essenziale funzione nella comprensione dell’oggetto studiato , tramite strumentazione tecnico-analitica densa di storia.

La comprensione della guerra in atto al centro dell’Europa non si esaurisce con lo sguardo concentrato su quel luogo e sul tempo iniziato con l’aggressione russa. È di per sé evidente chi sono gli aggressori e chi sono gli aggrediti, così come i crimini di guerra all’interno di una guerra che di per sé stessa è un crimine totale. Questa immediata evidenza è solo un aspetto della conoscenza/comprensione dell’evento. Un aspetto di un insieme che include guerre diverse (almeno tre), con temporalità ed ambiti geografici diversi, proiettati su logiche conflittuali globali. In tale prospettiva esercitare la critica è dovere di tutti, ma connesso in particolare con la condizione di studioso professionale. La critica, per essere davvero tale, deve andare alle radici dei fenomeni, e quindi entrare nel merito di una concezione dialettica di «Occidente». I critici non sono nemici dell’Occidente, bensì contrappongono una concezione dell’Occidente ad un’altra.

Per un editorialista del Corriere della Sera, invece, questa tradizione culturale è solo un «pregiudizio» che manifesta «una disposizione a negare l’evidenza». Una opinione non «degna di rispetto», tipica di nemici interni, contro la quale «è necessario erigere barriere e barricate» (Panebianco, 3 aprile).
L’editorialista ribadisce così le sue idiosincrasie espresse in un lungo periodo di attività giornalistica e sulle quali ho avuto modo di esprimermi in vari luoghi compreso questo giornale. Ne riprendo i motivi, oggi ancor più attuali.

In un articolo del 18 agosto 2014 egli rendeva comprensibile il problema di quelle antitesi che sono state uno degli aspetti fondamentali della nostra modernità, tramite una spiegazione «abbastanza semplice». «Le società democratiche occidentali – diceva – hanno sempre contenuto al loro interno quote più o meno ampie di persone che le odiano e vorrebbero distruggerle. (…) I primi responsabili sono gli «intellettuali», anzi gli «pseudo-intellettuali» che rappresentano «una quota incomprimibile di alienati».

Quindi è l’«alienazione» il criterio utilizzato da Panebianco per distinguere gli «intellettuali» dagli «pseudo-intellettuali». In questo caso il concetto di «alienazione» non ha niente a che vedere con la complessa categoria analitica di origine marxiana su cui poi ha lavorato a lungo tutta la teoria critica, anche quella non francofortese. Qui «alienati» significa semplicemente «matti». Il lessico usato è indicativo: «odiatori», «pseudo-intellettuali», «alienati».

Gli «alienati» sono tali in quanto utopisti, fuori dalla realtà. Alcuni di questi, Walter Benjamin, György Lukács, Ernst Bloch sono considerati da Thomas Mann come facenti parte «del gruppo di ingegni più intelligente che ci sia oggi ». È vero che, secondo i parametri con cui Panebianco distingue i «liberali» dagli «illiberali», il Thomas Mann del 1947 potrebbe essere considerato fortemente sospetto di «illiberalismo». Una «quinta colonna» insomma.

Non è necessario essere studiosi di professione per sentirsi a disagio di fonte alle suddetta «semplice» spiegazione (?). Non si può non essere colti da stupore, smarrimento e anche da un qualche imbarazzo. Ci troviamo di fronte a un esercizio di demonologia con annesse maledizioni ed esorcismi.
Per l’editorialista del «Corriere», Rosa la galera la meritava tutta.