La prima cosa che si notava in Barbara Ehrenreich incontrandola era il suo sguardo malinconico. Occhi azzurri che tradivano una segreta inquietudine. Questo non le impediva di essere una delle persone più lucide e determinate che abbia mai conosciuto. E, come dice Steven Colatrella, «non si era mai trovata una volta dalla parte sbagliata della lotta di classe».

ERA A NEW YORK abbastanza spesso per incontrare i direttori dei giornali a cui collaborava, Ms., The Nation, Harper’s e proprio l’inventore di questo mensile sofisticato e progressista, Lewis Lapham, ebbe l’idea di un reportage su come viveva quella metà dell’America di cui i giornali non parlano mai: quelli che lavorano per 7 dollari l’ora, i cosiddetti working poors, quelli che non guadagnano abbastanza per pagarsi un tetto decente e quindi vivono nelle roulotte, nei motel, su un divano dagli amici quando le cose vanno male in macchina. Oppure fanno due lavori, ciascuno da 40 o più ore la settimana.

Come ha raccontato lei stessa nel 2011, decennale della pubblicazione di Nickel and Dimed (tradotto da Feltrinelli con il titolo Una paga da fame) il progetto non era di intervistare i baristi, le cameriere, i cuochi, i facchini, i muratori e gli idraulici, bensì di diventare una di loro. Barbara aveva quasi 60 anni quando si trasformò in una cameriera a Key West (Florida) e poi a Portland (Maine): lavori che normalmente fanno gli studenti universitari durante l’estate oppure i diplomati che non possono o non vogliono andare all’università.

La fame di lavoratori a basso costo nel settore dei servizi era (ed è insaziabile) quindi trovare lavoro non fu difficile: nei ristoranti, nei bar e nei motel della provincia americana tutto quello che ti chiedono prima di assumerti è se puoi cominciare domani. Meglio se sei giovane e hai i documenti in regola ma questo è un optional se sei disposto ad accettare una paga da fame. Ehrenreich i documenti ovviamente li aveva, il fisico per affrontare un turno di otto o nove ore in un diner sempre aperto anche. Il carattere per tenere testa ai capetti, pure.

UNO DEI BRANI più interessanti di Una paga da fame è la sua riflessione sui rapporti con i cosiddetti manager: «Penso che le umiliazioni imposte a tanti lavoratori a basso salario – i test antidroga, la costante sorveglianza, l’essere insultati dai capi – siano in parte ciò che mantiene bassi i salari. Se ti fanno costantemente sentire inadeguato, alla fine arrivi a pensare che quanto ti pagano sia ciò che vali davvero. È difficile immaginare un’altra funzione dell’autoritarismo sul posto di lavoro.

IL RISULTATO DI UN ANNO E MEZZO di vita con l’altra metà dell’America, quella che vive paycheck to paycheck, cioè aspettando la fine del mese e stringendo la cinghia, furono queste amare riflessioni su come gli Stati Uniti trattano i lavoratori manuali: «Quando una persona lavora per un salario inferiore a quello con cui può vivere – quando, ad esempio, soffre la fame perché voi possiate mangiare in modo più economico e conveniente – ha fatto un grande sacrificio per voi, vi ha fatto dono di una parte delle sue capacità, della sua salute e della sua vita. I poveri che lavorano, come vengono chiamati con approvazione, sono in realtà i maggiori filantropi della nostra società. Trascurano i propri figli perché i figli degli altri siano accuditi; vivono in catapecchie perché altre case siano perfette e splendenti; sopportano le privazioni perché l’inflazione sia bassa e i prezzi delle azioni alti. Essere uno di loro significa essere un donatore anonimo, un benefattore senza nome per tutti gli altri». Una condanna senza appello.

Tutti conoscevano Barbara per il suo bestseller: Nickel and Dimed vendette due milioni di copie negli Usa. Lei aveva però scritto altri libri importanti, come ricorda Colatrella, che allora insegnava al Bard College, una università progressista a 150 km da New York: Fear of Falling (1989) per esempio è stata una delle migliori analisi sugli Stati uniti dal dopoguerra all’era di Ronald Reagan, uno studio molto serio sulla classe media. Questa classe e il suo rapporto con la classe operaia è sempre stato un tema importante per Barbara Ehrenreich, figlia di un minatore».

SÌ, PERCHÉ EHRENREICH era nata a Butte, nel Montana, dove ci sono cinque auto e dieci armi da fuoco per famiglia. Era figlia di un minatore delle celebri miniere di rame della Anaconda, una delle più spietate corporation mai apparse tra l’Atlantico e il Pacifico. Il padre era però riuscito a frequentare le scuole serali, a vincere una borsa di studio alla Carnegie Mellon e a trasferire la famiglia a Pittsburgh, aprendo alla figlia la strada dell’università prima e della scrittura poi.

Storie di un altro continente? Non proprio, come ci ricorda Aboubakar Soumahoro, anche l’Italia «è diventata una Repubblica fondata sul lavoro povero, che non permette ai lavoratori di soddisfare i bisogni vitali. Quattro milioni di lavoratori guadagnano meno di 1000 euro al mese secondo i calcoli dell’Istat». Barbara Ehrenreich mancherà non soltanto alla nuova sinistra americana, che in questi mesi sta cavalcando un’ondata di sindacalizzazione attesa da troppo tempo, ma anche alla sinistra italiana, senza idee e senza coraggio (due cose che Barbara aveva in abbondanza).