«Deh», «hchouma», «tchop»… inutile tentare la traduzione visto che anche per molti francesi sembra trattarsi di un esercizio piuttosto arduo. Il punto è però un altro, vale a dire che in Francia, come ha sottolineato Le Monde solo un paio di giorni fa, c’è una lingua che sale dalla strada che si va imponendo come pratica diffusa, anche se ancora non è riconosciuta a pieno titolo dai dizionari. Si tratta di ciò che il quotidiano parigino ha ribattezzato come «l’argot des cités», più o meno letteralmente il gergo delle periferie che, specie sulla spinta di milioni di giovani transalpini che in quelle zone sono nati e cresciuti, sta contribuendo a rivoluzionare la lingua di Voltaire.

Eppure, nelle 514 nuove parole che hanno integrato le ultime edizioni dei celebri Larousse e Robert, ben poche hanno seguito il percorso che dal basso conduce, per così dire, all’accademia. «Solo un pugno di termini provenienti dalle cités – notava ancora Le Monde – hanno finalmente fatto la loro apparizione: come go (fidanzata) e babtou (o toubab; bianco in lingua wolof), termini che però nelle banlieue circolano ormai da più di trent’anni».

QUANDO CI SI INTERROGA, a partire dall’orizzonte della politica o della rappresentanza istituzionale dei cittadini, su quanto di ciò che accade nelle periferie sia visibile nel volto pubblico della République, si tende a dimenticare che l’esistenza dei fenomeni non sempre coincide con i codici attraverso i quali si è soliti registrarne lo stato di salute. In altre parole, non necessariamente il fatto che della banlieue si parli solo quando il fuoco della rivolta ne illumina le notti, significa che per il resto del tempo non ci sia nulla di interessante da osservare e descrivere.

E, soprattutto, che non ci siano vite e storie che per il solo fatto di scorrere ogni giorno meritano, e talvolta necessitano, di essere narrate. Non farlo rivela non soltanto della superficialità, e molto spesso anche della malafede, ma una sorta di pericoloso disinteresse per una sorte che con molta difficoltà qualcuno può pensare di separare davvero dalla propria. Anche se il termine «banlieue» indica ormai tutto o nulla, esistono infatti quelle residenziali composte da villette a schiera all’americana, come quelle tutte «barres et tours» dell’edilizia popolare anni Settanta, ispirate talvolta alle bizzarrie dell’architettura moderna, almeno un sesto della popolazione transalpina abita in qualche modo «lontano dal centro». Non solo, si tratta di una tendenza che, complice l’aumento di affitti e prezzi delle case, gentrificazione dei centri storici e magari anche crisi ambientale, non ha fatto che crescere negli ultimi anni.

UN SOLO DATO, per quanto parziale, può aiutare a comprendere la situazione: mentre Parigi «città» perde ogni anno decine di migliaia di abitanti, gli ultimi dati parlano di circa 2 milioni e 200mila persone residenti all’interno del Boulevard périphériques, la zona della Seine-Saint-Denis, la grande corona periferica del Nord della capitale supera ormai il milione e 600mila residenti. Come a dire che Parigi conta ormai una sorta di «doppio» in banlieue e che le due realtà, come raccontano del resto da decenni romanzi, film e canzoni prima ancora che le cronache politiche o sociali, non cessano di osservarsi con esiti spesso davvero imprevedibili.

Se questa è «la mappa» su cui si gioca la partita, è chiaro che anche gli strumenti analitici vanno sintonizzati sul «ritmo della strada». Perché, come spiegava già una ventina d’anni fa Alain Bertho, uno degli intellettuali che meglio hanno affrontato il tema, che è cresciuto e ancora vive a Saint-Denis, «la banlieue è oggi portatrice di un’altra modernità, a cui vanno strette le nozioni tradizionali di inserimento e integrazione. Su questa sfida si misura gran parte del futuro della nostra società».

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Al grande rimosso su cosa accada e quali energie, anche politiche, si muovano nella periferia transalpina dedica ora un importante indagine Atanasio Bugliari Goggia: Rosso Banlieue (ombre corte, pp. 478, euro 29, con la Prefazione di Pietro Saitta). Si tratta di un’opera frutto di una ricerca durata più di due anni e che ha visto l’autore risiedere a lungo prima a Clichy-sous-Bois e quindi a Aulnay-sous-Bois, due banlieue parigine al centro di importanti rivolte, e movimenti, nello scorso decennio, che intende illustrare l’«etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi». Alla vera e propria ricerca sul campo si intrecciano nel volume un ampio quadro delle principali teorie sociologiche che hanno riguardato il fenomeno ricorrente degli émeutes, le rivolte delle cité, e un’immersione nell’inquadramento marxiano del rapporto tra classe, città e lavoro. Il tutto, arricchito da oltre trenta pagine di preziosa bibliografia.

L’APPRODO DELL’AUTORE riflette su come le periferie siano tutt’altro che dei «deserti politici» e su quanto «al ridimensionamento delle organizzazioni del movimento operaio», abbia corrisposto «l’emersione di altri collettivi: mobilitazioni per la casa e per il diritto alla città, collettivi di educazione popolare e comitati di quartiere, associazioni giovanili, lotte per l’immigrazione e contro la violenza della polizia». Inoltre, si segnala ancora in Rosso banlieue, «oltre a queste forme di autorganizzazione, gli abitanti delle periferie esprimono, ieri come oggi, sentimenti di ingiustizia e rabbia per le diseguaglianze e le discriminazioni che subiscono, a testimoniare una politicizzazione ordinaria, una politica del quotidiano».