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Antoine Volodine, sgozzatore professionista insegna a evitare la vecchiaia

Antoine Volodine, sgozzatore professionista insegna a evitare la vecchiaiaTony Oursler, «Number Seven, Plus or Minus Two», 2010

Scrittori francesi Datato 1986, prima che lo scrittore francese cominciasse a presentarsi come «post-esotico», «Liturgia del disprezzo» è raccontato da un prigioniero; ma non si sa di chi, né perché: da 66thand2nd

Pubblicato 15 minuti faEdizione del 6 ottobre 2024

Buona parte della fantascienza si industria a farci visitare mondi diversi dal nostro, siano essi futuri più o meno remoti, o pianeti extrasolari, o universi paralleli. Talvolta queste realtà altre sono più convincenti, a volte meno, ma chiunque si cimenti nella costruzione di questi mondi, seguendo una tradizione che risale almeno al Moro di Utopia, si trova e sempre si troverà a dover risolvere un problema spinoso: fino a che punto aiutare il lettore a orizzontarsi in una realtà aliena? Se lo si getta in questo altrove senza mediazioni, rischia di perdersi, perché i riferimenti culturali della sua (e nostra) realtà (quella che Barthes, in S/Z, chiamava «Voce della scienza») non lo possono aiutare.

Se invece si forniscono continue spiegazioni (che gli americani e gli inglesi chiamano ironicamente infodump) si rischia di cadere nel didascalico. Come sanno i più abili artigiani della fantascienza – da Heinlein a Silverberg – bisogna trovare un equilibrio. Alcuni scrittori si arrischiano, tuttavia, a gettare il lettore nell’altro mondo, lasciando che ne deduca leggi, regole, dinamiche, tardando a svelare ciò che all’inizio risulta incomprensibile.

È questa la strategia che ha sposato Antoine Volodine, pseudonimo dello scrittore francese Jean Desvignes, del quale esce finalmente in Italia il romanzo Liturgia del disprezzo (traduzione di Anna D’Elia, 66thand2nd, pp. 179, € 17,00), datato 1986. All’epoca Volodine accettava ancora di essere inquadrato come autore di fantascienza, ma poco dopo entrò in conflitto con l’ambiente degli appassionati francesi del genere, e preferì presentarsi come scrittore post-esotico, genere cui appartiene una narrativa di difficile catalogazione, ovviamente non realistica, la cui originalità e stranezza ha portato la critica a parlare di «realismo magico sovietico», specie riguardo al romanzo Terminus radioso (anch’esso uscito da 66thand2nd). «L’immaginario post-esotico – ha dichiarato Volodine – rimanda a questa utopia (incarnata nella rivoluzione russa)… e al contempo rimanda a un’amarezza di fondo: il sogno è irrealizzabile, ma bisogna crederci disperatamente, e sempre, altrimenti la lotta non avrebbe alcun senso».

In una prosa vivacemente espressionistica, e visioni ai limiti del surrealismo, Liturgia del disprezzo ci catapulta in un mondo decisamente stravolto: la voce narrante è quella di un prigioniero interrogato e sottoposto a torture, che nelle pause scrive, ripercorrendo momenti della sua strana infanzia. Prigioniero di chi e perché?

A questa domanda Volodine rifiuta di dare una risposta; eppure, man mano che leggiamo, una serie di accenni più o meno corposi delineano una realtà che cozza con la nostra visione del mondo. Si parla di popoli sconosciuti, una guerra combattuta con strane armi (le bombe stazionarie, dall’esplosione interminabile), infine capiamo di trovarci in una delle situazioni più classiche, fin dai tempi di H.G. Wells, della fantascienza: l’invasione aliena. Ci viene fatto anche capire che in qualche modo gli alieni sono capaci di confondersi con noi, assumendo le nostre sembianze, e che l’invasione ha rinunciato a un’impossibile vittoria, optando per una lenta e inarrestabile infiltrazione.

Tutto questo sullo sfondo di un mondo devastato, immiserito, sconquassato dalla guerra, anzi, da guerre sovrapposte: quella tra gli uomini e quella con gli invasori da un altro mondo, a loro volta divisi in varie popolazioni e clan che non sembrano animati da amore reciproco.

Nella scrittura di questo decisamente anomalo romanzo colpisce la violenza sensoriale e il suggerimento a vedere dietro la desolazione e lo sfascio della disastrata Terra futura miserie e rovine ben più prossime a noi: i colori espressionisti usati da Volodine, le percezioni tattili, olfattive, acustiche trasmesse con effetti stridenti (una sorta di Kirchner verbale) concorrono a alludere a esseri familiari tramite personaggi e ambienti del tutto alieni, come la figura del sinistro e mellifluo zio Volp Wolguelam, uno sgozzatore che persuade al suicidio e provvede – ovviamente a pagamento – per chi non ha il coraggio di fare da sé (una prassi che solo più avanti nel romanzo viene riportata alla cultura degli alieni, dove la vecchiaia è una condizione spregevole da evitare a tutti i costi). Quando appare nel romanzo, infatti, Volp è già all’opera nel suo negozio, mentre fa vedere a un cliente come sarà da vecchio, per convincerlo a morire risparmiandosi il futuro disfacimento fisico. E tutta una serie di dettagli vengono profusi da Volodine nel presentarcelo come fosse un ragno al centro della tela, indaffarato a imprigionare le sue vittime.

La conclusione del romanzo chiarisce qualche aspetto della vicenda, e dunque nelle ultime pagine vedremo il tutto, ma per poco, con gli occhi di un umano e non di un alieno. E però non ogni cosa verrà rivelata: Volodine lascia al lettore il compito di rimettere insieme le tessere di un mosaico dove molto rimane enigmatico e spiazzante, facendo sì che restino comunque delle lacune.

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