Cultura

Gli orchi non vivono in periferia

Gli orchi non vivono in periferia«Banlieue 13», film di Pierre Morel (2004)

Intervista A dieci anni dalla più grande rivolta urbana della storia francese, parla il politologo Thomas Guénolé, autore del libro diventato un caso «Les jeunes de banlieue mangent-ils les enfants?»

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 31 ottobre 2015

Arabo, mal rasato, tra i tredici e i trent’anni, indossa una felpa con il cappuccio e cammina con una Molotov in una mano e un coltello nell’altra. Si fa una canna nei sottoscala. Incendia delle auto. Tira a campare grazie a dei traffici illeciti o frodando l’assistenza sociale. Stupra le ragazze nelle cantine; ascolta le prediche fondamentaliste nelle stesse cantine. Odia la Francia, l’ordine e detesta i francesi (intesi come ’bianchi’). Ama la jihad. Il suo sogno: battersi in Siria al fianco di Al Qaeda o dell’Isis, per poi tornare in Francia per commettere degli attentati. Il ’giovane della periferia’ è l’orco dei tempi moderni».

Politologo e docente a Sciences Po e all’Hec di Parigi, cofondatore di Vox Politica, collaboratore di Libération, di Bfmtv e del sito Slate.fr, Thomas Guénolé ha suscitato un ampio dibattito con il suo recente Les jeunes de banlieue mangent-ils les enfants?, uscito nell’anniversario dalla più grande rivolta urbana della storia francese, scoppiata nell’ottobre del 2005.

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Thomas Guénolé

Dieci anni dopo la grande rivolta il suo libro cerca di smontare il mito negativo che circonda la figura del «giovane di periferia», fantasma ricorrente che alimenta ogni sorta di timore nella società. Cosa è cambiato nel frattempo e chi sono davvero questi ragazzi?
Passo dopo passo, nel corso di questo decennio, il razzismo è diventato un fenomeno di massa in Francia. Dieci anni fa, Nicolas Sarkozy introduceva nel dibattito pubblico un linguaggio aggressivo nei confronti dei banlieusard, ma erano in campo anche altre opzioni.

Oggi, il dibattito è totalmente dominato da quel tipo di toni e posizioni che puntano ad alimentare paura e inquitudine, in un modo del tutto immotivato.

I giovani che vivono in banlieue sono infatti poco più di un milione e nel 98% dei casi non sono né dei «parassiti», né dei delinquenti o appartenenti a bande criminali, né dei proseliti dell’islam radicale. Solo che il cosiddetto ascensore sociale è in panne da tempo e così soltanto un piccolo numero di costoro riesce a trovare un lavoro qualificato o a costruirsi una carriera degna di questo nome e, di conseguenza, a cambiare quartiere lasciando le periferie.

Per tutti gli altri, si tratta di sopravvivere tra disoccupazione, lavoretti precari, «l’arte di arrangiarsi» e la noia. O la frustrazione di un orizzonte senza prospettive.

Inoltre, c’è una cosa che salta subito agli occhi: queste zone presentano le medesime caratteristiche socio-economiche dei paesi in via di sviluppo: il fatto che un abitante su due sia giovane, sotto in trent’anni, l’elevato tasso di disoccupazione, l’assenza di formazione, lo stato di abbandono delle infrastrutture.

Gli stereotipi e i pregiudizi in base ai quali sono descritti questi giovani celano in realtà una nuova «questione sociale»?
In gran parte sì. Nel momento in cui il vostro benessere poggia sulla povertà di qualcun’altro, avrete sempre bisogno di demonizzare quest’ultimo per giustificare la patente ingiustizia, anche solo di fronte a voi stessi. In caso contrario, se si dovesse ammettere che, come è nella realtà dei fatti, la grande maggioranza dei giovani disoccupati, precari o senza alcun redditto di questo paese, vale a dire i ragazzi delle banlieue, non sono né dei banditi né degli approfittatori e non rappresentano alcun tipo di pericolo, la prosperità e l’agio di cui godono le classi medio-alte del paese risulterebbero intollerabili di fronte a una tale estensione della povertà.

In questo senso, la stigmatizzazione dei banlieusard è pressoché necessaria per i maschi bianchi e adulti appartenenti alle classi superiori che guidano la nostra società.

I mostruosi ragazzi delle periferie incarnano le peggiori paure di costoro: la paura dei giovani, dei poveri, degli arabi, dei neri, dei musulmani. E minacciano le loro case, i loro beni, le loro donne, ogni cosa.

Per risolvere il cosiddetto problema delle banlieue si dovrebbe in realtà abbattere il sistema di segregazione economica sociale e culturale su cui si basa la Francia del 2015.

Il sociologo Emmanuel Todd sostiene che malgrado le grandi manifestazioni unitarie che hanno fatto seguito alla strage a «Charlie Hebdo», il paese non abbia in realtà superato le sue divisioni e in particolare l’esclusione che colpisce gli abitantti delle periferie urbane. È d’accordo?
In effetti, come ha spiegato Todd, quella che va per la maggiore è in realtà un’affermazione falsa. Dopo la strage, è il ceto medio a essere sceso in piazza e a essersi presentato come portavoce dell’intera nazione. Ma in quelle manifestazioni i giovani delle banlieue, come il resto dei ceti popolari, erano scarsamente rappresentati.

Nello specifico, i poveri sono rimasti ai margini della mobilitazione esattamente perché sono esclusi dalla società e dalla politica. Inoltre, un po’ meno della metà dei giovani di periferia è cresciuta in famiglie musulmane, anche se non frequenta le moschee o segue i precetti – le ricerche più recenti indicano che solo il 20% di loro si definisce «praticante». Partecipare a iniziative che, in molti casi, potevano apparire come critiche verso l’Islam rappresentava qualcosa di molto complesso.

Piuttosto, la tragedia di gennaio ha avuto una conseguenza diretta sulla percezione che si ha di questi giovani: dal «mostro delle banlieue» si è passati al «mostro musulmano».

Lei descrive l’insieme delle retoriche pregiudiziali attive in questo contesto come una «balianophobie» alimentata dai media, da commentatori come Eric Zemmour o da intellettuali come Alain Finkielkraut che conducono una campagna sulla presunta «decadenza» della Francia.
Con il termine di balianophobie ho voluto descrivere il mix di paura e odio verso i giovani delle banlieue che sembra caratterizzare la nostra classe media, il nostro sistema informativo, il nostro cinema ma anche le élite del paese. Si tratta di sostituire sistematicamente la realtà con dei cliché che incutono timore e inquietudine.

Penso a film di successo come Intouchables, dove Omar Sy interpreta il ruolo di un ragazzo di periferia che diventa un gangster o alle parole di Finkielkraut che già all’epoca della rivolta del 2005 evocava la «pista jihadista» dietro alle proteste; proprio lui che nel ’68 stava dalla parte di chi tirava i sassi contro i poliziotti. Il problema è che le idee degli intellettuali reazionari sembrano essere divenute egemoniche nella Francia odierna.

Si tratta del compimento di un percorso iniziato all’indomani dell’11 settembre e che si è fatto via via più aggressivo. La messa in discussione della grandeur del paese a causa della crisi economica e di diversi fattori geopolitici e l’impasse del modello repubblicano, producono un terreno favorevole a discorsi basati sul sospetto e sulla ricerca di un capro espiatorio e i giovani di banlieue sembrano fatti apposta per incarnare questa minaccia, sono l’«altro» per antonomasia.

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