Banel ha una mira a alta precisione, quando tira con la fionda non c’è nulla che possa sfuggirle. Lei e Adama si amano, un amore totale, speciale, unico. Nel villaggio del nord del Senegal, dove vivono, governato dalle leggi delle tradizione più severe e da quelle religiose – il fratello di Banel è imam – il loro essere insieme sfugge alle regole, si basa su una scelta, su sogni condivisi, sul tempo passato insieme nel lavoro e a casa. C’è un assoluto in questo loro amore che non piace agli altri, la madre di Adama che lo vuole capo del villaggio, gli anziani, le donne, le ragazze, la madre di Banel a cui la ragazza alla fatidica domanda: «Quando farete dei figli?» risponde: «Per farne cosa?».
Banel e Adama, interpretati rispettivamente da Khadi Mane e Mamamdou Diallo, presentato in concorso, è l’opera prima di Ramata-Toulaye Sy, senegalese, diploma alla Femis, la scuola di cinema parigina, che sceglie l’amor fou come lente nella quale focalizzare lo scontro tra la libertà di scegliere (e di vivere) la propria esistenza e quel nodo stretto, soffocante, di imposizioni che arrivano dall’eredità patriarcale, di cui sono parte anche le donne, nel quale si mischiano superstizioni, violenza, ignoranza, cattiveria. Banel a parte Adama non ha nessuna amica al villaggio, la considerano una pazza, e forse un po’ lo è: ma come non impazzire tra matrimoni combinati, lo spauracchio delle seconde o terze mogli, l’invadenza della madre del suo amato, quel maschilismo feroce, camuffato da legge sacra di cui sono bersaglio appena nate? E che nega loro, appunto, anche la complicità per ribellarsi. Rimane questo amore diverso che per Banel è la sua utopia e rivoluzione: non può accettare di vederlo affondare come le case «maledette» nella sabbia.

LA REGISTA costruisce un villaggio africano quasi teatrale nella bellezza di un paesaggio ostile, fra siccità e tempeste di sabbia fuori dal tempo, come se fossimo in una fiaba, che filma con studiata eleganza. I colori, gli abiti, la luce, gli spazi, i gesti dei personaggi – attori non professionisti, che recitano in lingua pulaar – sono composti con un’eleganza formale a cui si oppone una narrazione semplice, che dissemina intorno ai due giovani i segni della realtà che piega la loro esistenza – e nel fuoricampo molte delle ragioni per cui si è obbligati a partire. L’intento «didattico» poteva essere un punto di partenza interessante, lo hanno insegnato i grandi «padri» del cinema africano come Sembene Ousmane, ma non sembra questo il caso, e anche rispetto a altri esordi africani visti in questi ultimi anni, segno di una ripartenza generazionale nel cinema del continente – pensiamo al potente Nous, Etudiants! di Rafiki Fariala, a proposito di giovinezza in paesi assai complicati, siamo in Centrafrica – Banel e Adama, nonostante alcune sequenze di bellezza visiva – l’inizio di sussurri e giravolte nella luce di ispirazione malickiana – non riesce a avanzare nella sua proposta. Prende le parti della ragazza, che si fa portatrice di una negata presa di parola della donna, e al tempo stesso ne esaspera a tal punto i percorsi quasi fino al paradosso, così da svuotarla di energia, da renderla come tutte le figure che popolano questo universo uno strumento della scrittura. Lei si ostina, fino all’ossessione, combatte questa sua lotta contro un nemico impari rovesciando la sua raggia e il suo dolore nei colpi di fionda che uccidono lucertole e uccellini.

INTANTO però non piove – sarà la maledizione del loro amore? – tutti impazziscono, le vacche muoiono, le persone anche, Adama si sente in colpa pensando che accade perché non ha seguito gli obblighi tradizionali, Banel si perde sempre di più nei suoi deliri. E un po’ si perde rispetto al suo film anche la regista – sarebbe interessante capire i processi di scrittura fra i diversi laboratori di coproduzione: il soggetto si fa così invasivo da condizionare il racconto, permearlo costantemente delle sue necessità, frenare un gesto di cinema più libero, meno controllato, senza quell’equilibrio necessario di film politico (e poetico).