Bakhmut, la città di fantasmi che non sente più le bombe
Il limite ignoto I leader filorussi delle quattro regioni ucraine occupate chiedono al Cremlino di decretare l’annessione
Il limite ignoto I leader filorussi delle quattro regioni ucraine occupate chiedono al Cremlino di decretare l’annessione
Bakhmut è una città di fantasmi. Si muovono, parlano anche, ma quasi tutti hanno lo sguardo assente e sembra che agiscano per inerzia. Rispetto a un mese fa i palazzi crollati sono aumentati considerevolmente e le strade del centro sono chiuse da cavalli di frisia appoggiati a pesanti blocchi di cemento.
Appena scendo dalla macchina un sibilo fende l’aria e corro a ripararmi dietro i rottami di un chiosco ma sono l’unico. Dopo l’esplosione, distante poche centinaia di metri, vedo una signora anziana che cammina con una busta di plastica dalla quale si intravedono dei vestiti invernali. Cammina senza curarsi nulla, è il ritratto dell’indifferenza. Un’altra esplosione segue alla prima ma la signora non batte neanche le ciglia. Mi sorpassa senza dire nulla, come se non ci fosse lì un uomo vestito di nero con un pesante giubbotto antiproiettile indosso.
TRANNE I MEZZI di militari non circola una macchina. Qualche vecchietto si muove in bicicletta con il portapacchi pieno di pezzetti di legno presi probabilmente dalle macerie di qualche negozio. Ai bordi della strada un’altra signora rossa in viso, quasi viola, si guarda intorno circospetta e schifata. È ubriaca, definirla senzatetto sarebbe pretestuoso se si considera quanti tetti sono crollati, comunque porta una busta di plastica e urla qualcosa di incomprensibile rivolta verso l’ex-mercato coperto cittadino. All’ennesimo urlo, da ciò che resta di una farmacia esce un uomo barcollante, ha tutta l’aria di essere ubriaco anche lui. Ha una torcia in mano ed evidentemente cercava qualcosa da portare via ma dai gesti eclatanti che fa si capisce che non ha trovato nulla, così come non riesce a trovare l’interruttore della torcia che si punta negli occhi ripetutamente. Mentre osservo la scena passano altri anziani, nessuno fa caso alle urla: non si fermano e non si voltano neanche. Tutti hanno una busta di plastica in mano.
Nel mercato, tra le lamiere carbonizzate diventate color del rame e i resti dell’isolante dei tetti che copre i pavimenti come una distesa di piume nere e grigie, i banchi sono tutti chiusi. In un angolo c’è una signora che vende sigarette e di fronte a lei un uomo con un secchio di plastica pieno di tabacco. Lo vende a peso ma alla seconda domanda si innervosisce e inizia a urlare «vuoi fare una foto, vuoi fare una foto?» con rabbia crescente. Incuriosito dalle urla si affaccia Vitaly, è l’unico ad avere aperto il banco e vende un po’ di tutto, dagli attrezzi a vari oggetti raccolti qua e là dei quali la maggior parte sembra rotta. Ieri non ha venduto niente, mi chiedo se gli altri giorni gli vada meglio, ma comunque è molto più affabile degli altri e ha voglia di chiacchierare. «Hai visto qui intorno?» chiede, una situazione tremenda rispondo, ma lui insiste «non vogliono più farci vivere». «Non c’è gas, la luce va e viene, l’acqua per ora c’è…» un’esplosione più forte lo interrompe. «Dannati idioti!», «gli artiglieri russi?» chiedo. Lui mi fissa, dando l’impressione di voler leggere qualcosa nel mio sguardo, e risponde «no, sono i russi, sono gli ucraini, entrambi! Ma quello di prima era ucraino». Come fa a saperlo? «Io ero carrista durante l’Urss in Germania dell’Est, so riconoscere da dove viene sparato un colpo e di là ci sono gli ucraini». Ma perché gli ucraini dovrebbero sparare qui? «E io che ne so, chissà chi cavolo stanno puntando, idioti!». Secondo Vitaly provano a colpire le postazioni russe ma ogni tanto sbagliano. «Ma i russi bombardano?» insisto, «certo! E chi mi ha distrutto la casa a Soledar, una bella casa, di legno… ora un cumulo di macerie». Gli stessi che l’hanno costretto a dormire qui, al mercato.
«ANCORA?» Da dietro un mucchio di lamiere divelte si sente la voce di Bogdan, uno spilungone con una lunga crosta da ferita sul sopracciglio, «casa mia è lì» indica con il dito verso la piazza del comune, «ma ora non c’è più niente». Gli offro una sigaretta e chiede se può prenderne due, gli lascio il pacchetto e poi inizia a raccontare di quanti giorni sono trascorsi dall’ultima volta che ha mangiato. Non sembra così deperito ma lo accompagno fuori da un negozio chiuso dove due signore vendono delle conserve e sott’aceti vari dal portabagagli dell’auto. Le signore non gli parlano e gli fanno capire di muoversi, lui sceglie dei tipici cetriolini e ci salutiamo.
POCO DOPO colpiscono in città, si alza una densa colonna di fumo bianco da dietro un mucchio di case ma, di nuovo, sono l’unico a fissarla. Le poche persone presenti continuano a camminare come se fossero sorde.
Verso l’ora di pranzo il fuoco si fa incessante, sia in uscita sia in entrata. Non si vedono danni evidenti, almeno non nelle vicinanze del centro. Poco dopo i media ucraini danno la notizia che l’ennesimo attacco ucraino a Bakhmut è stato respinto.
INTANTO i leader dei quattro territori ucraini dove si sono tenuti i referendum hanno richiesto palesemente l’annessione alla Russia. In un video pubblicato ieri, Leonid Pasechnik, capo dell’amministrazione separatista del Lugansk ha spiegato che il momento per la riunificazione è giunto. Pasechnik ha specificamente chiesto un decreto, quindi una misura del presidente Putin in persona, per evitare lungaggini burocratiche. Quasi in contemporanea hanno parlato Denis Pushilin, capo del Donetsk separatista e Volodymyr Saldo, da Kherson. Secondo la Tass anche da Zaporizhzhia sarebbe stata presentata la stessa istanza.
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