Visioni

«Babygirl», trasgressioni sadomaso nel teatrino formato famiglia

Nicole Kidman in una scena da «Babygirl»Nicole Kidman in una scena da «Babygirl»

Venezia 81 Nicole Kidman è la star del film scritto e diretto da Halina Reijn, presentato in concorso. Una donna di potere, un ragazzo giovane e dominatore, i territori proibiti e le fantasie sessuali «al femminile»

Pubblicato circa un mese faEdizione del 31 agosto 2024

Un film sul sesso. E sui desideri più intimi: segreti, famiglia, consenso. È questo nelle parole della sua protagonista Babygirl che si apre con una coppia che fa sesso; sembrano godere, lei e lui, «ti amo» le sussurra l’uomo prima di addormentarsi, lei sorride e poi corre frenetica al pc per masturbarsi davanti a un porno.

La donna è Nicole Kidman, sbarcata al Lido nella folla plaudente che si mette a servizio (non con l’umorismo necessario) di questo «teatrino» sadomaso in cui per arrivare al piacere Romy – questo il nome del personaggio – proietta se stessa nella cagna dal pelo scurissimo – lei che è rossa ramato – domata (e dominata) da un giovane stagista (Harris Dickinson) dell’azienda di robotica di cui è CEO e fondatrice.

Racconta Kidman incontrando i giornalisti dopo la proiezione: «Amo indagare le donne, gli esseri umani in tutte le loro sfaccettature. Ma oggi sono spaventata, questo film è molto estremo e io di fronte al mondo mi sento esposta e vulnerabile».

Estremo a dire il vero ci sembra esagerato. È vero, il film diretto da Halina Reijn, fra le cinque registe (su venti titoli) del concorso, olandese, anche attrice e produttrice con una certa attrazione per l’erotismo femminile, è arrivato alla Mostra preceduto da un’aura «scandalosa», e soprattutto non bisogna sottovalutare i confini del lecito entro i quali le star hollywoodiane devono fare attenzione a muoversi oggi a cui la «trasgressione» del film risponde pienamente.

Nicole Kidman a Venezia
Nicole Kidman a Venezia, foto Ansa

MA CHE RACCONTA dunque Babygirl? Di una donna che ama interpretare la perfezione fra l’ufficio nel grattacielo di Manhattan e la sua «casa di bambola» (di lusso) dove indossa il grembiulino di altri tempi (sarà pure questa una fantasia erotica?) allestendo la famiglia perfetta: due figlie, una gender fluid, l’altra ancora bambina, il marito (Antonio Banderas) regista teatrale con predilezione non a caso per Ibsen (una delle figlie si chiama Nora), alle prese con Hedda Gabler.

Per le impiegate più giovani lei incarna un esempio virtuoso di donna arrivata ai vertici in una realtà maschile seppure le cose iniziano a cambiare e la policy dei rapporti aziendali che si basa sul «caring» (spesso preludio di grandi mazzate) pone la massima attenzione sulla correttezza delle relazioni.

Il suo rapporto col giovane risulterebbe come un abuso a rischio di licenziamento. Siamo sicuri però che sia così? Anche perché in quel quotidiano di riflessi e ambizioni – fra corsi contro le molestie e promesse di nuove aperture le cose sembrano meno lineari.

Potere, controllo, dominio, sesso. Sono così solo con te dice il ragazzo alla donna di cui ha intuito dietro alla facciata di sicurezza il bisogno di giocare a schiava e padrone. E intanto inizia una relazione con la sua giovane assistente in cerca di promozione.

Nonostante i tremori e gli ardori di Romy la sessualità rimane ancorata ai luoghi comuni fra dovere coniugale più o meno fallito e una «rappresentazione» di fantasie molto basiche del sadomaso – lei che lecca il piattino con il latte, lui che le dice di obbedire ecc ecc – . Siamo sempre sulle superfici di una Hedda Gabler 2.0 fino al paradosso – basterebbe pensare a personaggi come Elle di Verhoeven della presidente di giuria Isabelle Huppert, lei sì diva senza limiti. O alla Catherine Breillat di Ancora un’estate in cui la passione (e il controllo) di una donna più grande per un ragazzo che inverte il solo trito e ritrito copione del maschio vecchio con la ragazzetta, non ha bisogno di sovrastrutture che non siano il desiderio o le invenzioni.

IL GIOCO qui è invece fin troppo chiaro, guidato (come le IA prodotte dall’azienda della protagonista) in un film che è l’esempio perfetto di come oggi funziona l’idea di sceneggiatura confezionata per far sì che il pubblico non faccia nessuno sforzo di fantasia.

Tutto è pronto, conseguente, peggio che nel suddetto teatro S&M di cui il personaggio di Kidman è regista non troppo fantasiosa.

Prima di questo però c’è l’immagine femminile, le figure di donne viste in questi primi giorni sugli schermi del Lido sono noiosamente rinchiuse in un male gaze che non fa distinzioni di genere e ne appiattisce qualsiasi potenziale che sfugge alla riconoscibilità.

Lo è la Maria di Pablo Larrain, la diva «dall’interno» come lui vuole, svuotata di intelligenza e complessità. E lo è la Babygirl – come la chiama il ragazzo – la cui fisionomia, capriole finali comprese, si incolla anch’essa a fantasie del maschio, un po’ le stesse di chi come la nostra premier Meloni parla di sé al maschile indossando abiti di taglio da uomo seppure rosa.

Il female gaze è un’altra cosa, è una questione di sguardo, dettagli, inquadrature, gesti, sensibilità che filmano una donna. Il resto, come questi modelli, risponde alle frasi fatte tipo «le donne al centro» che somigliano tanto ai buoni premio di fine stagione.

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