Il luogo: il viaggio nel tempo di Azzedine Alaïa, Arthur Elgort. Freedom (Damiani Editore, 2023) comincia e si conclude negli spazi di archeologia industriale tra rue de la Verrerie e rue de Moussy, nel quartiere parigino del Marais. Arthur Elgort (Brooklyn, New York 1940) fotografa in bianco e nero i profili slanciati di questa cattedrale del progresso tutta ghisa e vetro. Il tempo: l’arco temporale è focalizzato intorno al 1987, l’anno in cui Azzedine Alaïa (Tunisi 1935-Parigi 2017) acquista il complesso architettonico che diventerà il suo atelier, oggi sede della Fondazione che porta il suo nome e che per l’occasione ospita la mostra curata da Carla Sozzani e Olivier Saillard (fino al 20 agosto).

Uno slittamento cronologico che anticipa il momento fatidico dell’apoteosi, con le modelle che sfilano in Rue de la Verrerie, è sintetizzato da altre immagini scattate dal fotografo a partire dal 1982-83 in diverse occasioni, sia a Parigi che nel suo studio a New York. Riconosciuto interprete della fotografia di moda, Arthur Elgort inizia a collaborare negli anni Settanta con riviste di moda quali Mademoiselle, Glamour, ma soprattutto è per Vogue che realizza memorabili servizi intercettando, e certe volte assecondando, le idee più imprevedibili di Alexander Liberman, il leggendario direttore editoriale del più influente periodico internazionale di moda. Vogue era stato fondato a New York nel 1892 e pubblicato da Condé Nast a partire dal 1909. Proprio nelle pagine di On the Edge: Images from 100 years of Vogue (1992) è lo stesso Elgort a scrivere dell’importanza dello sfondo nella sua fotografia: «prima l’idea era solo di mostrare i vestiti in tutto il loro splendore e mettere un po’ di blu dietro, per indicare la presenza del cielo.» L’equilibrio tra realtà e messinscena gioca, infatti, un ruolo decisivo nelle sue immagini anche quando – come vediamo sfogliando il libro Azzedine Alaïa, Arthur Elgort. Freedom – nel realizzare i «desiderata» di Liberman fotografa per Vogue una modella nuda sullo sfondo e, in primo piano, Joan Severance che indossa abiti realizzati da Azzedine Alaïa per la collezione autunno-inverno 1983. Oppure quando a Parigi, nel 1985, ferma l’attimo sospeso del movimento nel salto di Naomi Campbell e Jennifer Jimenez. Con la sua visione anticonvenzionale, il couturier tunisino che era arrivato a Parigi alla fine degli anni ‘50 (grazie a Madame Zeineb Lévy-Despas, cliente di Christian Dior, era stato ammesso come stagista presso la Maison Dior) aveva conferito all’abito nuove possibilità nell’essere uno strumento per la valorizzazione del corpo femminile. Uno sguardo, il suo, indirizzato ad una donna dalla personalità esuberante, emancipata, libera attraverso capi di cui curava anche il minimo dettaglio, ispirati in parte al mondo arabo da cui proveniva.

Tra l’altro era un grande fan di Oum Kalthoum: nel sito della sua fondazione (www.fondationazzedinealaia.org) tra i momenti significativi della sua vita è indicato, nel 1967, l’incontro con la cantante-diva egiziana dopo aver assistito al suo concerto all’Olympia. Da piccolo a casa dei nonni, a Tunisi, dove i genitori lo avevano mandato insieme alla sorella gemella Hafida perché ricevessero un’istruzione appropriata, ogni primo giovedì del mese si doveva cenare presto: «Dovevamo stare calmi, non fare rumore, perché mio nonno cercava di captare alla radio le onde che venivano dall’Egitto, perché cantava Oum Kalthoum. Tutti erano seduti per terra, aspettando che lei cantasse. La sua voce faceva venire la pelle d’oca. È stata la prima grande voce che ho sentito nella mia infanzia.» C’è una «morbidezza» nelle sue creazioni che ricorda certe melodie arabe anche quando le forme diventano squadrate, i tagli arditi, come nell’iconico abito rosa con cappuccio indossato da Grace Jones nel 1985 per gli Oscar de la Mode a Parigi. Un’immagine di Grace Jones avvolta in questo abito sinuoso è stata scattata anche da Elgort. Senza parlare una parola d’inglese lo stilista, né di francese il fotografo, i due avevano in comune lo stesso entusiasmo, la curiosità verso il mondo: «ci sentivamo come bambini», ebbe a dire Alaïa. Ne sono testimoni, del resto, le immagini fotografiche.

Negli scatti di Arthur Elgort, che come il fotografo tedesco Peter Lindbergh (autore della meravigliosa foto del 1986, malinconica interpretazione del tema del viaggio con Azzedine Alaïa preso per mano da Linda Spierings sulla spiaggia ventosa di Le Touquet) ha raccontato senza veli la forza creativa di Alaïa, si colgono molti momenti «genuini» a partire dal rapporto d’intesa con le mannequin, top model come Naomi Campbell, Veronica Webb, Yasmin Le Bon, Christy Turlington, Iman Mohamed Abdulmajid, Marpessa Hennink, Jennifer Gimenez, Linda Spierings. Particolarmente intenso il ritratto dello stilista con Veronica Webb, perfetta incarnazione di sensualità e forza. Nell’inquadratura si coglie il movimento delle mani di entrambi e lo sguardo dagli occhi luminosi, oppure nel dietro le quinte mentre Alaïa punta con cura amorevole gli spilli sull’abito indossato dalla modella a Parigi per la sfilata della collezione primavera-estate 1988.

Quanto alla «Venere Nera», le prime foto la ritraggono poco più che teenager, all’inizio della sua carriera. All’epoca la Campbell viveva a Parigi a due passi da Rue de la Verrerie ed era sempre disponibile a posare con indosso gli abiti dello stilista. Il fotografo coglie il sorriso soddisfatto dello stilista mentre la osserva con indosso un abito dal sapore prebellico, ma non gli sfugge neanche quello complice della modella con una gamba poggiata sulla spalla di Azzedine Alaïa, ieratico e anche lui sorridente con in braccio uno dei suoi amati Yorkshire Terrier. Naomi Campbell indossa décolleté con il tacco e bustier sul finto tutù (collezione autunno-inverno 1987) e, come colta di sorpresa, si volta verso il fotografo facendo ruotare il tessuto plissettato.