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Autonomia indigena sulle Ande

Autonomia indigena sulle AndeUn enorme striscione del Cric sventola su una protesta anti-governativa a Bogotà nel 2019 – Ap

Colombia Il Consiglio del Cauca compie mezzo secolo di resistenza disarmata e culturale agli interessi dei narcos e all’estrattivismo di Bogotà: «Quando lo Stato risponde con negligenza, blocchiamo le vie senza armi. Anche se dobbiamo difenderci ogni giorno dai fucili, dello Stato e dei gruppi armati»

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 6 marzo 2021

Viaggio a El Pital (Cauca), nel cuore delle Ande colombiane, dove tra il 19 e il 24 febbraio si è celebrato il cinquantesimo anniversario della fondazione del Consiglio regionale indigeno del Cauca (Cric), la prima organizzazione indigena moderna d’America.

I popoli nativi del Cauca hanno elaborato un sistema di governo alternativo e di difesa territoriale che costituisce un modello di riferimento per tanti movimenti sociali del continente.

«Abbiamo compiuto mezzo secolo, mezzo secolo di lotta. È un grande orgoglio». Le parole di Edgar Bomba Campo, governatore indigeno di etnia Nasa del territorio di Sath Tama Kiwe, trasudano l’emozione di poter raccontare una storia negata: quella dei 115 popoli indigeni che lottano per la sopravvivenza nella Colombia neoliberista di Ivan Duque, uno Stato plurietnico solo sulla carta costituzionale.

INSIEME ALLE ALTRE nove etnie che si riconoscono nel Cric, le comunità Nasa hanno colorato con gli stendardi della Wiphala andina il territorio ancestrale di El Pital nel Dipartimento del Cauca, uno dei maggiori epicentri del conflitto armato colombiano.

Siamo alle pendici della Cordigliera centrale delle Ande, a un’ora di cammino dalla Via Panamericana, l’infinita arteria stradale che trancia verticalmente l’America del Sud collegando Santiago de Cali al resto del continente. A pochi chilometri di distanza, le infrastrutture statali lasciano spazio alle vie fangose costruite dalla guerriglia negli scorsi decenni.

Favoriti dalla bassa curva epistemologica della peste – così le comunità chiamano il Covid-19 – i popoli indigeni del Cauca hanno costruito in pochi giorni un vero e proprio villaggio di malocas (tradizionali case amazzoniche in foglie di palma), centri di medicina ancestrale e spazi di incontro con le autorità locali.

Quando le musiche indigene che accompagnano l’incontro lasciano spazio al conturbante silenzio del crepuscolo andino, nei dialoghi tra i membri della comunità si distinguono le diverse lingue native parlate nella regione, tenacemente sopravvissute all’invasione spagnola e agli inesauribili tentativi di conquista culturale.

«COSÌ SI MANTIENE viva la parola dei mayores, di chi ha perso la vita combattendo in difesa del territorio», rimarca un’autorità incaricata dell’apertura della cerimonia. El Pital è cosparso di bandiere rossoverdi del Cric e delle giacche blu che costituiscono la divisa della Guardia indigena.

Dotate di un bastone tradizionale, le guardie indigene si occupano di effettuare il cosiddetto «controllo territoriale», ovvero di impedire il transito di attori armati nei territori ancestrali. Poco più di un anno fa, il 29 ottobre 2019, quattro guardie indigene di etnia Nasa sono state assassinate insieme all’autorità ancestrale Cristina Bautista a Tacueyó (Cauca) da un gruppo dissidente delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Fc). Le Guardie operavano in prima linea e disarmate contro la presenza del narcotraffico nella regione.

EPISODI COME QUELLO di Tacueyó costellano la storia recente delle montagne del Cauca, una delle tante regioni colombiane a cui lo Stato ha voltato le spalle. La comunità Nasa è solo una delle decine di popolazioni autoctone costrette a difendere i propri territori dal fuoco incrociato del (post) conflitto armato interno.

Una guerra che continua a uccidere civili nel nebuloso contesto degli incompiuti accordi di pace tra Farc e Stato. Una guerra con cui gli indios delle montagne del Cauca non hanno nulla da spartire: da un lato, un governo abituato a calpestare i diritti dei nativi, prime vittime delle strazianti pratiche paramilitari di scuola uribista delle forze armate colombiane; dall’altro, le dissidenze delle Farc, guerriglieri che non hanno saputo ascoltare le esigenze di autonomia delle società indigene e che a oggi, schiavi della mafia del narcotraffico, sono i più diretti responsabili dell’etnocidio del popolo Nasa, l’unica comunità a proporre un coraggioso tentativo di resistenza alla presenza di coltivazioni illecite di coca e marijuana nei loro territori.

«Quando diciamo che la nostra vita è stata la resistenza, è perché ci siamo sempre organizzati per avere una vita tranquilla in mezzo alla guerra – racconta Edgar Bomba Campo – La nostra lotta è per la terra. Poi viene il resto. I nostri territori se li contendono i gruppi armati, i narcotrafficanti e lo Stato. Senza interpellarci. Ma noi non siamo d’accordo con nessuno dei modelli economici che ci vogliono imporre».

La secolare storia di resistenza Nasa ha preso la forma di un’organizzazione strutturata esattamente cinquant’anni fa. Era il 24 febbraio 1971 quando nel villaggio di Toribío circa duemila indigeni si riunivano per mettere fine al sistema latifondista che sfruttava la loro manodopera, dando vita al Cric, la prima organizzazione indigena moderna d’America.

GLI OBIETTIVI ERANO gli stessi di oggi: terra, cultura, autonomia. I metodi chiari: ripristino dei sistemi politici ancestrali, occupazioni di territori, nessuna arma. I risultati, impressionanti: quasi centomila ettari di terre tornate ai loro legittimi proprietari dopo l’irricucibile ferita della conquista spagnola e la sua tragica eredità nei domini dei grandi proprietari terrieri di Cali e Popayán.

L’IMPAGABILE SFORZO per il recupero delle culture proprie ha permesso di creare sistemi alfabetici per lingue che pochi decenni fa erano relegate allo spazio privato delle conversazioni domestiche, perché proibite dalle istituzioni scolastiche di matrice cattolica.

Oggi la sfida più urgente del Cric – dopo aver lottato per il riconoscimento dell’istituzione politica e giuridica dei resguardos, spazi dove è l’assemblea popolare gestita dalle autorità tradizionali a guidare ogni decisione – è trovare il modo di ottenere una vera autonomia nonostante i territori ancestrali siano soggiogati dagli inesauribili interessi che alimentano il conflitto armato interno.

Come vivere secondo le leggi ancestrali in una regione che paramilitari e guerriglieri continuano a ritenere strategica per la produzione di cocaina da esportazione e che le grandi transnazionali della canna da zucchero non vogliono smettere di sfruttare per le loro coltivazioni estensive?

«SIAMO PARTE di uno Stato che ci dà diritti di cui nei fatti non possiamo godere. Non ci garantiscono di esercitare la nostra forma di vivere – commenta a riguardo Edgar Bomba Campo – Noi rispettiamo le norme di convivenza, siamo abituati al dialogo. Il dialogo è tutto nelle comunità indigene. Ma quando lo Stato risponde con negligenza siamo costretti alle vie di fatto, seguendo il nostro diritto, che discende dalla legge d’origine ed è riconosciuto dalla Costituzione. Blocchiamo le vie, senza armi. Anche se dobbiamo difenderci quotidianamente dai fucili, dello Stato e dei gruppi armati. Non possiamo dare questa vita ai nostri figli. Ma sembra che qui la pace interessi solo a noi».

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