Più Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e tempi più lunghi di detenzione amministrativa. Sono due delle norme votate ieri dal Senato durante la conversione in legge del decreto Cutro. L’aumento di queste strutture, «una per regione» come previsto già dal decreto Minniti-Orlando del 2017, era contenuto nell’articolo 10 del testo originario che consente al governo di derogare a una serie di norme per le nuove costruzioni.

Il prolungamento dei tempi di trattenimento, invece, è stato inserito ieri con un emendamento che aggiunge altri 45 giorni al tetto attuale (inizialmente ne erano stati ipotizzati 90). L’obiettivo dichiarato dal governo è aumentare i rimpatri, ma che le nuove misure possano aiutare a raggiungerlo resta da vedere.

«SI TRATTA di provvedimenti slogan: chiunque, compresa la polizia, sa che se non riesci a identificare una persona in 90 giorni non succederà dopo», afferma l’avvocato Guido Savio, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).

Al momento la detenzione amministrativa dei cittadini stranieri può durare fino a tre mesi, prorogabili di un altro in casi specifici: 15 giorni in più per chi arriva direttamente dal carcere e altri 15 se la persona viene da un paese con cui l’Italia ha accordi di rimpatrio.

Intuitivamente si potrebbe pensare che a un numero maggiore di Cpr corrisponderanno più rimpatri. Ma è un’illusione ottica. Almeno per il momento. Le dieci strutture oggi in funzione hanno una capienza di quasi 1.400 posti. Il dato più aggiornato, alla scorsa settimana, dice che erano trattenute 619 persone. Viene dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, le cui rilevazioni statistiche sugli ultimi dieci anni dicono che solo il 50% delle persone passate dai Cpr sono state rimpatriate.

«Per l’altra metà il trattenimento è stato improprio e indebito», afferma il garante Mauro Palma. Durante i suoi sette anni di mandato, nei Cpr sono finiti 33.252 migranti e ne sono stati espulsi 15.938.

IL NODO, ovviamente, non sono le percentuali, ma i numeri assoluti. Questi però non dipendono dalle presenze nei centri di detenzione, dipendono dagli accordi di rimpatrio con i paesi terzi. Questo governo, come molti altri del resto, ha l’obiettivo di aumentarli e ampliarli. Fino a quel momento, però, cresceranno le persone detenute e il tempo trascorso dietro le sbarre.

Per ora gli accordi che «funzionano» sono con Tunisia, Albania, Marocco, Egitto, Nigeria e Georgia. Lo scorso anno sono state rimpatriate 3.916 persone: 2.308 a Tunisi, 518 a Tirana, 329 al Cairo e 187 a Rabat.

«Se non cambieranno gli accordi si abbasserà solo la percentuale dei rimpatriati rispetto ai trattenuti. Un paradosso, che ha un costo in termini economici e di sofferenza – continua Palma – Le nuove misure rischiano di giocare soltanto una funzione simbolica, di consenso elettorale. Ma in questo simbolico entra la vita delle persone».

Anche perché i Cpr sono un unicum nel panorama detentivo italiano. Sono a gestione privata, assegnata in funzione di gare al ribasso che comportano un peggioramento delle condizioni detentive. Gli studi degli ultimi anni hanno rilevato abuso di psicofarmaci, assistenza sanitaria carente, diffuso autolesionismo e diversi morti. Un fallimento, insomma, sia rispetto all’obiettivo dei rimpatri, che riguardano poche migliaia di persone, sia rispetto a quello della garanzia della dignità e dei diritti fondamentali di chi è trattenuto senza aver commesso alcun reato.