È stato un passo deciso fuori dalla sfera di influenza nordamericana – e in direzione di un mondo multipolare – quello realizzato da Lula in Cina. Un passo che ha subito messo in allarme la stampa brasiliana, preoccupata della possibile reazione degli Stati uniti all’avvicinamento del Brasile al gigante asiatico, con relativa minaccia di de-dollarizzazione.

MA SE LA LOTTA contro l’imperialismo a stelle e strisce, più ancora che attraverso processi di integrazione regionale, sembra passare per una più profonda cooperazione con la Cina – anche nelle aree della ricerca scientifica e tecnologica e dell’innovazione industriale, oltre che in quelle tradizionali dei minerali e dei prodotti agricoli e di allevamento (soia e carne bovina su tutti) –, la penetrazione cinese in America latina non è certamente esente da pericoli e minacce.
Nel subcontinente la Cina non si è di sicuro risparmiata, investendo negli ultimi dieci anni 130 miliardi di dollari, più altri 72 miliardi in acquisizioni di imprese, concentrate nei settori del gas, del petrolio e dei prodotti minerari e mirate in particolare al rame del Perù, al litio della Bolivia e al petrolio del Venezuela.
E dopo aver realizzato in tutta l’America latina, nel quadro della Belt and Road Initiative (Bri), la nuova Via della seta, un’enorme rete di infrastrutture destinata a facilitare l’accesso alle materie prime, la Cina è sempre più presente anche in campo tecnologico, attraverso tre grandi imprese: Huawei, Alibaba e Tencent.

UN’ESPANSIONE resa possibile, secondo l’economista argentino Claudio Katz, dalla combinazione di «audacia economica e astuzia geopolitica»: attenta a non sfidare apertamente gli Usa in quello che è sempre stato il loro cortile di casa, la Cina si è concentrata sulla sfera economica evitando qualsiasi scontro sul piano geopolitico e guardandosi bene dall’accompagnare i suoi investimenti con basi militari o esercizi militari congiunti. E oltretutto conquistandosi la riconoscenza di diversi paesi latinoamericani quando, durante la pandemia, a fronte del disinteresse più completo mostrato dall’amministrazione Trump, ha messo a disposizione 400 milioni di dosi di vaccini e 40 milioni di articoli sanitari. La Cina, insomma, spiega Katz, «fa affari con tutti i governi senza incidere nella loro politica interna», ponendo come unica condizione per qualsiasi accordo commerciale o finanziario la rottura delle relazioni diplomatiche con Taiwan (e così riducendone drasticamente l’influenza in Centroamerica e nei Caraibi).

Uno scenario piuttosto inedito, quello di una potenza che, evidenzia ancora Katz, conquista «enormi porzioni dell’economia mondiale senza far valere una corrispondente forza militare».
Ma man mano che viene meno la tradizionale sottomissione dei governi latinoamericani ai dettati di Washington, cresce anche la loro dipendenza e subordinazione economica da Pechino, non senza gravi conseguenze in campo ambientale.
Non a caso, per ammissione dello stesso Lula, la Cina «è un grande motore dell’agribusiness brasiliano», con tutto ciò che esso comporta per gli ecosistemi del paese, mentre grandi polemiche ha suscitato in Argentina l’incremento della produzione a larga scala di carne di maiale destinata al gigante asiatico.

E SE UNA VENTINA di paesi latinoamericani ha già aderito alla Bri, a far scattare l’allarme sui rischi di indebitamento è stato uno studio del laboratorio di ricerca AidData, secondo cui, per una quarantina di paesi a reddito medio e basso, i massicci investimenti cinesi in infrastrutture si sono trasformati in debiti superiori al 10% del loro Pil, senza contare gli innumerevoli casi di corruzione, violazione delle normative sul lavoro e devastazione ambientale.