La vendetta americana su Julian Assange – reo, com’è ormai arcinoto, di aver divulgato via WikiLeaks i crimini di guerra statunitensi in Iraq e Afghanistan – si avvicina pericolosamente al suo compimento. La Corte suprema britannica, nella persona del giudice Jonathan Swift, ha respinto l’appello dei legali del giornalista australiano contro l’estradizione negli Stati Uniti che gli costerebbe quasi certamente la galera a vita per essersi macchiato di «spionaggio». Rischia 175 anni di carcere.

IN UNA SENTENZA SEPARATA, il giudice ha anche negato ad Assange il permesso di ricorrere in appello contro il respingimento di altre parti del suo tentativo di evitare l’estradizione, che una sentenza del giudice distrettuale Vanessa Baraitser, nel gennaio 2021, aveva accolto in quanto lesiva dei suoi diritti umani e soprattutto della sua salute mentale. A quel rifiuto era seguito un ordine formale di estradizione per deportare l’australiano negli Usa nell’aprile dello scorso anno, cui era succeduta l’approvazione formale di detta estradizione, firmata nel giugno 2022 dall’allora ministro dell’interno Priti Patel. Dopo aver esaminato le otto motivazioni di appello proposti dai legali di Assange, Swift ha sentenziato di non ritenere che questi sollevassero «alcun caso adeguatamente discutibile».

Di diverso avviso il campo pro Assange, che continua ad allargarsi (anche al premier australiano Anthony Albanese). Giovedì Stella Assange ha scritto su Twitter che Julian avrà un’altra udienza presso la Corte suprema il prossimo 13 giugno per rinnovare la sua richiesta di appello. «La questione procederà quindi a un’udienza pubblica davanti a due nuovi giudici della Corte suprema; restiamo ottimisti sul fatto che avremo la meglio e che Julian non sarà estradato negli Stati Uniti dove dovrà affrontare accuse che potrebbero portarlo a trascorrere il resto della sua vita in una prigione di massima sicurezza per aver pubblicato informazioni vere che hanno rivelato crimini di guerra commessi dal governo degli Stati Uniti», ha aggiunto la signora Assange, madre di due figli nati quattro e cinque anni fa e che non hanno mai visto libero il padre.

Su Assange, 51 anni – gli ultimi quattro dei quali trascorsi nel carcere duro di Belmarsh e i precedenti sette autorecluso nell’ambasciata dell’Ecuador nel quartiere londinese di Knightsbridge – pendono 18 capi d’accusa da che WikiLeaks, l’organizzazione da lui fondata, aveva pubblicato migliaia di documenti secretati e dispacci diplomatici nel 2010 e nel 2011 che illustravano i crimini di guerra americani in quella che è a tutt’oggi la più vasta pubblicazione di documenti secretati del XXI secolo. Sulle sue condizioni psicofisiche la famiglia tace, anche perché è evidente che non sono affatto buone.

LE FANFARE DEI MEDIA LIBERAL internazionali restano debitamente silenti sul fatto – acclarato da El Pais – dello spionaggio da parte della Cia degli incontri di Assange non solo con i suoi avvocati in quel buco di ambasciata – più che sufficiente per smantellare ogni accusa – ma soprattutto sulla loro organizzazione di un tentato suo assassinio, ordito durante l’amministrazione Trump e brillantemente ignorato da quella di Biden. E che tra l’altro, in una perversa e beffarda ironia, legittima perfettamente la detenzione su motivi (altrettanto inventati?) del giornalista del Wall Street Journal Evan Gershkovich da parte dei russi.

Quello che i paesi della Magna Carta e del Big Mac stanno creando è un precedente per la criminalizzazione del mestiere del giornalismo, un sopruso da niente che il Primo Emendamento, probabilmente, sconsiglierebbe.