Se ne riparla in aula il venti maggio, altri due mesi. L’ennesima goccia nello stillicidio di Julian Assange è stata erogata ieri dal duo Sharp/Johnson, i giudici dell’Alta corte di Londra che hanno in mano il destino del fondatore di Wikileaks nella fase epilogale di questo suo calvario giudiziario.

IN UNA SENTENZA abbastanza acrobatica, i due hanno respinto cinque delle nove argomentazioni su cui poggia la richiesta dei legali di Assange per un nuovo appello contro l’estradizione del loro assistito decisa nel 2022 dall’allora ministra dell’Interno Patel e poi ribadita l’anno scorso sempre dall’Alta corte, ammattendone come legittime solo tre: quella che vuole la sua estradizione incompatibile con la sua libertà di espressione sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo; il fatto che possa essere discriminato per via della sua nazionalità (australiana) e quella secondo cui non gode di una protezione adeguata contro la pena di morte.

NON FOSSE CHE, sempre secondo la sentenza di ieri, gli Stati uniti potrebbero annullarle adducendo nuove garanzie scritte, ovvero che la libertà di parola dell’imputato sia tutelata e che questi non riceva la pena di morte prima di essere estradato. Per presentarle, gli statunitensi avranno tempo fino al sedici aprile. In caso contrario, l’autorizzazione all’impugnazione sarà concessa immediatamente, ma solo sulla base di queste tre argomentazioni.

Assange ricorrerebbe finalmente in appello contro la propria estradizione negli Stati uniti, che lo accusano di spionaggio e lo potrebbero schiacciare sotto 175 anni di galera per le famigerate pubblicazioni di file secretati nel 2010 e nel 2011 da parte di WikiLeaks che documentano nefandezze plurime commesse dal Washington in veri teatri di guerra. In (un assai più probabile) caso affermativo, le stesse garanzie saranno esaminate in un’altra udienza, provvisoriamente fissata per il 20 maggio. Se l’appello fosse allora respinto non resterebbe altra chance che rivolgersi alla Corte europea dei Diritti Umani.

IL DESTINO di Julian Assange continua dunque a pencolare sull’orlo di questo stramaledetto appello che l’Alta corte di giustizia britannica sembra intenzionata a concedergli postumo, se mai lo concederà. Si va avanti, facendo un passo avanti e mezzo indietro, mentre l’attivista langue nella galera incubo di Belmarsh da cinque anni.

E sì che questa sentenza è perfino meno draconiana della precedente del 2020, che aveva ribaltato la decisione del tribunale di grado inferiore di non estradare – concessa sulla base dell’alto rischio di suicidio per via della salute mentale precaria dell’imputato – basandosi esclusivamente sulle assicurazioni degli Stati uniti che Assange non sarebbe stato maltrattato nelle carceri statunitensi. Assicurazioni la cui discussione e confutazione i suoi legali si videro allora negata.

DAVANTI AL TRIBUNALE, dove ieri erano radunati numerosi attivisti, Stella Morris-Assange, lei stessa avvocata, ha definito la sentenza “sbalorditiva”: «Il tribunale ha riconosciuto che Julian è stato esposto a una flagrante negazione dei suoi diritti di libertà di espressione, che è stato discriminato sulla base della sua nazionalità e che rimane a rischio pena di morte. Ma ha invitato gli Stati uniti a inviare una letterina dicendo che va tutto bene».

È di qualche giorno fa la notizia che gli Usa sarebbero in trattativa con gli avvocati di Assange per un accordo che potrebbe portarne la liberazione dopo un quindicennio.