Sharm el-Sheikh si è tirata a lustro per ospitare la Cop27, occasione imperdibile per un regime che, pur godendo di una discreta protezione internazionale, ha bisogno di mostrare la faccia migliore.

Quella che Greta Thunberg ha definito operazione di greenwashing è stata coperta dall’Onu, che ha prima scelto la città egiziana sul Mar Rosso come sede della conferenza sul clima e poi ha sponsorizzato un progetto multimilionario per trasformare Sharm in green city.

I risultati: delegati che si spostano da una parte all’altra dei padiglioni a bordo di 110 autobus elettrici e 800 taxi alimentati a gas naturale (gli stessi, denunciano i partecipanti, dotati di telecamera di sorveglianza per controllare eventuali forme di dissenso), pannelli solari per dare energia all’economia locale, raccolta differenziata e cassonetti dotati di Gps che avvertono quando è tempo di svuotarli, spazi verdi tra cui un parco da 162mila metri quadrati e riconoscimenti speciali ai centri per immersioni che «proteggono la barriera corallina».

«L’OPPORTUNITÀ di ospitare la Cop27 ci ha dato maggiore motivazione a trasformare l’intera città», il commento ad Arab News di Yasmine Fouad, ministra egiziana dell’ambiente.

Per «trasformarla» Il Cairo ha impiegato undici mesi, attingendo ai sette milioni della fondazione Global Environment Facilty, per il Green Sharm Project in partnership con il Programma di sviluppo dell’Onu. Nel mirino c’è anche la barriera corallina e le sue 350 specie di corallo che, dice Undp, fanno del Mar Rosso «uno degli hub di biodiversità più sensibili al mondo».

Eppure quella biodiversità è stata già devastata. Da soggetti diversi e da almeno un secolo. A guidare dentro il collasso di Sharm el-Sheikh e l’attacco all’habitat di fauna e flora marine uniche al mondo è un’inchiesta dell’agenzia indipendente egiziana Mada Masr che ricostruisce i piani di sviluppo edilizio, l’ondata apparentemente inarrestabile del turismo di massa e gli espropri e la marginalizzazione subiti dalle comunità beduine locali.

INIZIA l’occupazione britannica che pone fine a migliaia di anni di vita nomade nel deserto del Sinai del Sud con l’emersione della prima industria mineraria locale, a cui seguono attività di estrazione petrolifera e, dunque, una prima vera urbanizzazione della Penisola.

Nel 1967 è l’occupazione militare israeliana, figlia della Guerra dei sei giorni, a intervenire con la Israeli Nature and Parks Authority che – come accade da decenni nella Palestina storica – designa il 98% del Sinai «parco naturale», impedendo alle comunità beduine di costruire case o scavare pozzi.

Di green c’è ben poco: Israele costruisce le prime strade costiere e apre il primo diving center della regione, embrione del futuro turismo di massa, all’epoca israeliano ed europeo. È sotto l’occupazione israeliana che nasce la prima colonia in Egitto, Ofira, e il sito della futura Sharm.

Con il ritorno del Sinai sotto il controllo egiziano, la zona sud entra di prepotenza nei piani di sviluppo del Cairo. Sharm el-Sheikh ne è la perla.

A metà degli anni Ottanta il governo inizia a vendere pezzi di terra a prezzi stracciati (12 dollari a metro quadro), attirando uomini d’affari, quell’élite economica protetta dall’allora presidente Mubarak (tra loro spicca Hussein Salem, futuro imperatore dei resort di Sharm) che, forte delle normative israeliane, mantiene in piedi le limitazioni all’espansione delle comunità beduine. Costrette a cedere le terre ai privati o al governo, in alcuni casi rimborsate con 6-8 dollari a metro quadro e private della vita nomade, con la pastorizia sostituita da un triste destino di «attrazione per turisti» o di manodopera a basso costo.

IN PARALLELO a essere distrutto è l’ecosistema, sommerso di cemento – quello dei mega resort di lusso costruiti sulla costa – e dall’impronta massiva del turismo, traffico marittimo di piccole e grandi navi, tour sottomarini sulla barriera corallina.

Più di recente sono comparsi altri progetti, tra cui una marina per gli yacht lunga qualche chilometro e realizzata con un enorme lavoro di scavo che ha inflitto nuovi irreparabili danni alla costa.

Un processo frenato in parte dalla presenza di organizzazioni islamiste jihadiste, responsabili di attentati contro i civili e di una guerra aperta con l’esercito egiziano.

Per l’ultimo regime, quello del presidente golpista al-Sisi, il jihadismo è diventato un’opportunità: da una parte gli ha permesso di sfruttare la lotta al terrorismo per garantirsi un posto al sole dentro la comunità internazionale, dall’altra ha portato alla militarizzazione della Penisola del Sinai, la cui più recente espressione è la ripresa della costruzione di un muro alto sei metri e lungo 32 chilometri – costellato di telecamere di sorveglianza e checkpoint militari – intorno a Sharm el-Sheikh che ha già provocato inondazioni dovute al mancato sistema di canali di drenaggio dell’acqua.

«Un muro per proteggere turisti e residenti», spiegava tre anni fa il governatore del Sinai del Sud, Khaled Fouda. Di fatto l’ennesimo strumento di emarginazione dei beduini, ancestrali abitanti di queste terre, il cui stile di vita aveva per millenni tutelato un ecosistema unico.