Ashkal del tunisino Youssef Chebbi, presentato giovedì alla Quinzaine des Réalisateurs, è un film che si afferma innanzitutto grazie alla forza delle sue immagini, prima chiare e geometriche e poi via via più misteriose fino all’inquietante esplosione finale. Fin dal primo momento, quando i poliziotti Fatma e Batal trovano il corpo incenerito di un uomo nel cantiere dei Giardini di Cartagine, enorme complesso edilizio la cui costruzione, abbandonata durante la rivoluzione del 2010, è prossima a ripartire, la dimensione politica è chiara. Un suicidio all’interno di uno dei luoghi simbolo delle ambizioni del regime di Ben Ali richiama inevitabilmente l’ambulante Mohamed Bouazizi che si immolò per protesta il 17 dicembre 2010, dando l’inizio ai moti di Sidi Bouzid e quindi alla rivoluzione.

Una gigantesca domanda, metastorica e ineludibile proprio perché sottoposta a un procedimento d’astrazione che parte dalla concretezza della carne viva e ustionata

IL FUOCO si impone all’attenzione, con i bagliori che nella notte moltiplicano le ombre delle strutture dei palazzi non finiti e vanno a contrasto con le immagini dei poveri resti che, alla luce del giorno dopo, vengono interrogati dalla polizia scientifica. Nel corso del film la sua importanza sale costantemente e, benché il valore di metafora sia evidente, a prevalere è sempre l’effetto di minaccia che esercita sul destino dei protagonisti. Un pericolo che sempre si rinnova, senza che le sue cause diventino più chiare e anzi mettendo continuamente in scacco la logica positiva dell’indagine. A complicare significativamente le cose è la composizione della anomala coppia di sbirri protagonista del film: lui è un esperto poliziotto cui, grazie alla faccia incredibile di Mohamed Houcine Grayaa, basta uno sguardo per far capire quanto sia rotto a ogni bassezza e come abbia fatto ad arricchirsi così negli anni precedenti; lei è una giovane istruita che possiamo immaginare nei cortei del 2011 a urlare per la libertà d’espressione e che, nonostante l’ostilità dei colleghi, condivide l’impegno del padre nel tribunale «Vérité et reàhabilitation» mirante a individuare la corruzione della polizia sopravvissuta al vecchio regime.

MA PROPRIO quando le aspettative del poliziesco si stanno indirizzando verso un complotto di qualche tipo, il film si apre a una svolta inaspettata e la soluzione al mistero va a collocarsi in una dimensione sovrannaturale, dominata da una figura enigmatica che con il fuoco condivide la natura e la capacità di propagazione. Pars destruens di un movimento storico o principio di distruzione, mezzo di purificazione o memento di promesse tradite, il fuoco rimane indecifrabile almeno quanto urgente, potente quanto imprendibile. Una gigantesca domanda, metastorica e ineludibile proprio perché sottoposta a un procedimento d’astrazione che parte dalla concretezza della carne viva e ustionata. Si esce un po’ sbalorditi da Ashkal oltre che ammirati dalla capacità dimostrata da Youssef Chebbi nel trascendere il reale conservandone la disperante concretezza. Un autore da tenere nella massima attenzione.