A proposito di cinema spagnolo – la grande notizia, tra l’altro, è che Victor Erice sarà a Cannes – viene naturale il confronto tra due registi attualmente centrali nell’economia del cinema contemporaneo, che ne sviluppano le potenzialità in modo opposto quanto radicale. Se Albert Serra (di cui il mese prossimo uscirà in Italia il suo straodinario, psichedelico Pacifiction) parte dallo spessore, anzi dalla densità e autoreferenzialità dell’immagine – tutta chiusa in se stessa, cioè aperta al caos – per arrivare alla narrazione solo in modo accidentale o altrimenti non arrivarci proprio, sabotarla non senza il gusto sotteso della beffa; Sorogoyen intende il suo cinema innanzitutto come dispositivo narrativo, congegno a orologeria in cui le immagini, la loro sostanza spazio-temporale siano esclusivamente lo strumento del racconto, e del raccordo tra le sequenze. In sala in questi giorni, reduce dal Festival di Cannes dell’anno scorso, l’ultimo film di Rodrigo Sorogoyen, As Bestas, è la conferma di questa garanzia narrativa intrinseca a tutto il suo cinema (non una concessione alle qualità organolettiche dell’immagine, al fibrillare estemporaneo, inconsulto di un qualche fuoco fatuo nel mezzo dell’immagine), anzi ne è l’esaltazione e la stratificazione, più che nei suoi film precedenti, tra cui, forse il migliore, Che Dio ci perdoni, solida, tesissima ricerca dell’assassino seriale.

ECCO, As Bestas radicalizza questi fattori narrativi, «investigativi» (delle possibilità stesse della narrazione: c’è nel film come un rivolgersi ai meccanismi interni della storia per verificarne o escogitarne il bilanciamento), soprattutto la tensione, la sospensione pericolosa, pericolante delle azioni, che è la chiave di volta di una partitura bilanciata in ogni suo movimento (forse fin troppo), tra preludi, l’incedere del motivo, pause e picchi improvvisi, quasi inattesi per quanto l’attesa, lo stallo sembravano essersi impossessati del ritmo del film.

È UN MECCANISMO di continua permutazione della prospettiva, dell’angolazione da assumere, tant’è che si oscilla ora in favore di Antoine e sua moglie Olga – coppia francese istruita, ecologista, idealista –, ora improvvisamente per i due turpi fratelli Xan e Lorenzo dei quali non si può non condividere la frustrazione ed esasperazione per una condizione di povertà e di sacrificio perenni, quasi atavici, come atavica sembra essere la lotta di classe. Poi, capito il meccanismo (niente di particolarmente innovativo, ma molto persuasivo), il dualismo del punto di vista, si cede a questo senso ondivago, a questo continuo cambio d’ottica, con un che di malessere, di nausea per queste bestie in balia del caos, del loro cieco furore, di un’ostinazione senza senso, intenti ad annientarsi a vicenda in ottemperanza a qualcosa di innato, un risentimento sordo e furioso regolato dall’odore del sangue. Il procedimento è quasi matematico per quanto basato su un principio esistenziale; è una sorta di partita doppia, in cui i valori di una parte sono controbilanciati da quelli dell’altra, alla fine, soprattutto nella fine, senza la possibilità di individuare una parte che prevalga dal punto di vista etico. I coniugi all’inizio sono vittime dell’ignoranza e della violenza dei due fratelli che arrivano a sabotare il raccolto biologico dei francesi, borghesi, magari con il vezzo di cambiare vita, così, per moda. Poi si capisce che quest’ostilità è causata dall’ostruzionismo di Antoine che non ha voluto acconsentire alla costruzione di pale eoliche nella zona; cosa che avrebbe affrancato Xavi e Lorenzo dalla loro disperazione in effluvio di sterco. Ma Antoine ha motivo di resistere a queste pressioni, perché ideologicamente avverso ai poteri finanziari (che ricavano profitti da quelle pale) e perché, sopratutto, quella terra era stata per lui la rivelazione della libertà quando v’era capitato da giovane. E così via: il conflitto è irresolubile, non solo per i personaggi del film, quanto per chi vi assiste, inerme, desolato, ancora lì a lambiccarsi il cervello e la coscienza dopo l’ultimo titolo di coda.