Il 20 giugno 2019 fu una giornata storica: l’Alta corte d’appello del Regno unito, ribaltando la sentenza dell’Alta corte, ordinava al governo britannico di sospendere il rilascio di nuove licenze per vendite militari all’Arabia saudita.

Una vittoria per chi si batte contro l’invio di armi a paesi violatori seriali di diritti umani e coinvolti in guerre brutali. Nel caso saudita, l’operazione in Yemen, lanciata nel marzo 2015 e tanto nel vivo che ieri l’Onu segnalava un 10% in più di bambini malnutriti nel paese.

La sentenza di un anno fa era chiara: seppur non sia possibile affermare che le armi british siano usate per violare i diritti umani, Londra non controlla abbastanza. Lo stop è durato un anno esatto: lo scorso luglio il governo britannico annunciava la ripresa delle vendite, confermata dalla segretaria per il commercio internazionale, Liz Truss («incidenti isolati» da parte saudita, non una strategia deliberata).

Chi ha mosso ricorso la prima volta, la Caat (Campaign Against Arms Trade), si è dunque riattivato: ieri ha chiesto una revisione giudiziaria della decisione del governo britannico di riprendere le vendite. Il governo di sua maestà dovrà spiegare in sede giudiziaria i motivi che hanno condotto a una tale considerazione: «Il governo può pensare che la distruzione su larga scala di scuole, ospedali e case possano essere etichettati come “incidenti isolati”, noi no – il commento di Andrew Smith, portavoce di Caat – Queste vendite di armi sono immorali e siamo certi che la corte confermerà che la decisione di rinnovarle è stata illegittima».

Sullo sfondo i dati forniti dallo stesso governo britannico: Riyadh è prima al mondo per acquisto di armi, 116 miliardi di dollari. Dal 2015 Londra ha venduto ai sauditi armi per un valore totale di 6,14 miliardi di dollari.